Siamo in mano a una banda di incompetenti e irresponsabili. Non in Italia, ma a livello globale, gente che non solo nega l’evidenza e prende in giro il popolo, ma che non ha nemmeno la decenza di tenere una posizione per più di due giorni di fila, svendendola al mercato dell’economicamente corretto e dell’interesse di bottega.
Partiamo da qualche dato di fatto. La Grecia è fallita. La svendita dei suoi titoli di Stato da parte delle banche europee è diventata una valanga inarrestabile generata da una palla di neve per troppo tempo lasciata rotolare: ieri un bond annuale greco pagava il 111,7% di rendimento e la curva verticale dei tassi (dal 40% al 107% in 40 giorni) testimonia che salvataggi e fondi europei sono solo barzellette. Sempre ieri, un biennale greco pagava un tasso del 57,57%, 60 punti di base di incremento intraday, mentre un decennale rendeva oltre il 21,15%, livello mai raggiunto dall’introduzione dell’euro, con lo spread tra titolo ellenico a 10 anni e Bund che ha sfondato quota 2.000 punti base, raggiungendo il record di 2052.
E i conti pubblici? Continuano a peggiorare. Secondo i dati diffusi dal ministero delle Finanze, nei primi otto mesi dell’anno il deficit pubblico è salito a 18,1 miliardi di euro rispetto ai 14,8 miliardi dell’analogo periodo dell’anno scorso, mentre le spese sono aumentate dell’8,1%, in larga parte a causa dell’aumento del costo del debito, mentre le entrate hanno accusato una contrazione del 5,3%. Di più, il governo greco ha annunciato di avere liquidità a sufficienza per finanziare le attività dello Stato, ovvero stipendi e pensioni, solo fino a ottobre.
Poveracci, verrebbe da dire, aiutiamoli ancora. Poi però, si scopre che Atene ha contestualmente annunciato una nuova tassa sulle proprietà immobiliari per consentire al governo di centrare gli obiettivi di bilancio di quest’anno: dal 2012 tutti i residenti in Grecia pagheranno una tassa patrimoniale di 4 euro per ogni metro quadrato di beni immobili posseduti, senza esenzioni di sorta. E tanto per far capire che non si scherza, si è legata la tassa alla bolletta dell’elettricità, ovvero o paghi 4 euro al metro quadro o ti staccano la luce. Peccato che, a fronte dell’ammissione di soldi sufficienti solo fino a ottobre, il governo greco attenda quattro mesi per introdurre la nuova, urgentissima tassa patrimoniale: ma come?
geofinanza.ilsussidiario.net
A mio avviso non ci sarà nessuna tassa sugli immobili, si tratta soltanto dell’ennesimo annuncio artificiale a uso e consumo dei partner europei affinché mettano mano ancora una volta – e rapidamente – al portafoglio e mantengano artificialmente in vita ancora per un po’ un Paese fallito che necessiterebbe invece di un bel default controllato e di una ristrutturazione del debito concordata. A occhio e croce è più facile che il primo gennaio 2012 la Grecia abbia una nuova moneta piuttosto che una nuova tassa patrimoniale.
In Germania, ormai la pensano così in tanti, quasi tutti. «In ultima analisi non si può escludere che la Grecia dovrà o potrebbe volere lasciare l’eurozona», ha dichiarato ieri il segretario generale del partito liberaldemocratico tedesco (Fdp), Christian Lindner, in un’intervista all’emittente televisiva Zdf. E ancora: «La Germania vuole che la Grecia resti nell’euro, nonostante i suoi problemi», ha affermato il portavoce del ministro dell’Economia tedesco, Philip Roesler, che è anche vice cancelliere: «Il nostro obiettivo è la stabilità dell’euro e vogliamo che la Grecia resti nell’euro». Peccato che domenica, ovvero il giorno prima e non un mese fa, lo stesso Roestler avesse detto che un default ordinario della Grecia non è più da considerarsi un tabù. Ma non basta: «La zona euro fa tutto il possibile per evitare che un Paese membro, come la Grecia, sia in situazione di insolvibilità», ha dichiarato il Commissario europeo per i mercati finanziari, Michel Barnier, ribadendo la propria «fiducia» nella solidità delle banche europee (che impagabile umorista!).
«Bisogna che qualcuno mantenga la calma e il sangue freddo», ha detto il commissario europeo a margine di un convegno, prima di emulare Chaplin in quanto a comicità: «Abbiamo fatto seriamente degli stress test e alcuni istituti, che non sono peraltro francesi, hanno mostrato debolezze e dovranno essere ricapitalizzati». Quando gli è stato fatto notare che gli stress test sono criticati in quanto non hanno tenuto conto dell’ipotesi di un’insolvibilità di paesi fragili come la Grecia, Barnier ha replicato: «Facciamo di tutto perché questa situazione non si presenti. Bisogna fare quello che abbiamo detto, in particolare le decisioni del 21 luglio». Ovvero, non risponde alla sacrosanta domanda del giornalista ma rimanda tutto al 21 luglio, ormai più che una data un totem: Barnier, per favore, ai mercati generali a scaricare cassette. Inoltre, la Commissione europea «non sta lavorando» su un’ipotesi di default della Grecia. Lo ha detto Amadeu Altafaj, portavoce del commissario per gli Affari economici e monetari, Olli Rehn: «È una questione di impegno politico assunto nei confronti di Atene». Bravi, con numeri come quelli sopraelencati non vale proprio la pena prendere in considerazione un’ipotesi di default.
Dio ci aiuti! Ma il peggio lo abbiamo vissuto durante il G7 dello scorso weekend a Marsiglia, dove ministri delle Finanze e banchieri centrali pensavano di passare un piacevole weekend di fine estate sorseggiando pastis e mostrandosi le foto scattate durante le vacanze e invece sono stati costretti a sparare una notevole dose di castronerie nella speranza di placare i mercati (il risultato è stato chiaro ieri mattina). A Marsiglia, oltre a quello del nodo Bce dopo l’addio di Jurgen Stark, è infatti emerso anche un altro contenzioso, subito placato in nome del “volemose bene” in salsa europea. Ovvero, la disputa che contrappone da settimane il Fondo monetario internazionale alle banche centrali europee sul tema della necessità di ricapitalizzazione degli istituti continentali, quantificato in 200 miliardi di euro.
«Il quadro delle banche europee è chiaro dopo che su queste è stata effettuata una nuova tornata di stress test molto seri e nei loro bilanci non si nascondono mostri o brutte sorprese», questa la risposta offerta dalla presidenza francese del G7 al richiamo lanciato dalla direttrice del Fmi, Christine Lagarde. «Non c’è alcun mostro nascosto nei bilanci delle banche che vigilo», ha affermato il governatore della Banca di Francia, Christian Noyer, secondo cui «non esiste alcun lupo nascosto dentro Société Générale, ma una generale tensione sulle banche europee, nata da un’incertezza sull’evoluzione dei debiti pubblici e sulla loro credibilità». Non si capisce, a questo punto, perché Parigi, a differenza di Milano e Madrid, abbia prorogato il bando sulle vendite allo scoperto fino a alla fine di novembre e, nonostante questo, le banche d’Oltralpe continuino a crollare, ieri sotto del 10% su voci di downgrade da parte di Moody’s per Bnp Paripas, Societe Generale e Credit Agricole, proprio per l’esposizione al debito greco. Caro Noyer, ai mercati generali a scaricare cassette.
E non venite a dirmi che è compito di politici e regolatori non spargere il panico tra i cittadini e sui mercati, visto che questi ultimi quale sia la gravità della situazione lo sanno benissimo e la prezzano ogni giorno, mentre i primi non sono bambini stupidi da ammansire, visto che si sta giocando con il loro futuro. Sarò fatto male, ma per impostazione intellettuale ritengo che dire a un malato di cancro ai polmoni che ha solo una brutta bronchite lo alleggerirà a livello di spirito, ma a lungo andare – e nemmeno troppo a lungo – lo ammazzerà. Io preferisco una disperazione consapevole che porti alla ricerca della cura piuttosto che la negazione infantile del male. E la verità è che Societe Generale ha perso il 55% dallo scorso 15 giugno, Credit Agricole il 45% e Bnp Paribas il 42% contro una media del 30% dei 46 istituti bancari tracciati dal Bloomberg Europe Banks and Financial Services Index.
E occorre ricordare che se la finanza si basa sempre sul valore relativo, il fixing a 3 mesi del Libor in dollari di Credit Agricole è salito al massimo tra le banche appartenenti al BBA, quindi si appresta a diventare a nuova preda insieme a Dexia. Ecco perché chiedo, seduta stante, le dimissioni di Christine Lagarde da capo del Fondo monetario internazionale. A fronte di un monito non giusto ma sacrosanto e a cifre inoppugnabili di questo livello, non è accettabile che il numero uno del Fmi al G7 operi una marcia indietro indecorosa solo per pressioni politiche interne, visto che le banche nel mirino sono francesi proprio come la Lagarde.
«Le cifre del Fmi sulla necessità di capitale per le banche europee, stimata in 200 miliardi di euro e che avevano causato i malumori di alcuni paesi del Vecchio Continente, sono state male interpretate»: così parlò l’ex ministro delle Finanze transalpino al termine del vertice G7, rilevando come «non si è trattato di uno stress test e non esprime la necessità di capitale delle banche Ue». Per la Lagarde, «è possibile che ci siano dissensi con i partner europei, ma in tal caso li avremmo espressi».
Il segretario ha annunciato la pubblicazione della bozza di un rapporto entro settembre per discutere sulla metodologia di calcolo, a fronte dei guaiti della Germania, la quale aveva lamentato come la cifra determinata dal Fmi provocasse incomprensioni sui mercati finanziari e fosse frutto di un’errata considerazione: larga parte dei capitali in questione non sarebbero infatti nei trading book delle banche, ma nei banking book, dove rimangono fino a maturazione.
Insomma, quei simpatici intransigenti dei tedeschi vogliono permettere alle loro banche di continuare a contabilizzare le detenzioni obbligazionarie di paesi a rischio nei bilanci al valore facciale dell’atto di acquisto e non al mark-to-market, ovvero all’attuale valore di mercato che è pari allo zero (chissà cosa pensa al riguardo l’inflessibile Jurgen Stark). Poi, chiamatemi pure paranoico, ma io sono rimasto molto perplesso leggendo un passaggio del comunicato finale del G7: «Le banche centrali restano pronte a fornire liquidità alla banche se richiesto. Daremo seguito a tutte le azioni necessarie per assicurare la capacità di recupero del sistema bancario e dei mercati finanziari». Chi sono queste banche potenzialmente a corto di liquidità?
Certamente non sono americane, visto che Oltreoceano gli istituti sono seduti su una montagna di riserve in eccesso (fatta salva Bank of America): il G7, quindi, ci ha anticipato una crisi di liquidità nel sistema bancario europeo? Forse è per questo che l’oro sta dando colpi di coda come un pesce fuor d’acqua? Tant’è. Ciò che non è emerso dal vertice di Marsiglia, però, è che venerdì prossimo proprio il Fmi riattiverà per altri sei mesi il programma Nab (New Agreement to Borrow) da 580 miliardi di dollari, rete di salvataggio di ultima istanza in caso di peggioramento della crisi dei debiti sovrani.
Un qualcosa che molti leggono come default greco alle porte, visto che nello statuto del Fmi il Nab è attivabile solo «temporaneamente e quando necessario per affrontare una minaccia al sistema monetario internazionale». Il Fmi decise l’attivazione precauzionale del programma lo scorso aprile per un periodo di sei mesi a fonte dello stallo europeo sull’attivazione del fondo Efsf, ma si dà per certo che, alla riunione di venerdì prossimo a Washington, si voterà formalmente per la sua prosecuzione. Peccato che a oggi nessuno dei grandi contributori del Fmi abbia attivato i procedimenti legali necessari – leggi voti parlamentari – per l’aumento formale della quota, quindi gli Usa potrebbero ritrovarsi a dover aprire un contenzioso legale una volta che la Grecia fallita utilizzerà i dollari promessi dagli Usa al Fmi, senza un collaterale a garanzia che questi vengano ripagati. Oppure, cosa molto più probabile, gli Usa si rimangeranno la parola data – così come Cina e Germania – e non cacceranno un solo dollaro supplementare, portando la Grecia finalmente al default, ma mettendo a rischio l’intero sistema.
A oggi, infatti, solo 17 dei 187 paesi membri hanno dato il via libera formale all’incremento di risorse, ma non gli Usa, la Cina e la Germania (i maggiori contributori) e senza l’operazione di extra-finanziamento, il Fmi può contare solo su 60 miliardi di dollari di fondo operativo di intervento. Ecco spiegata, forse, la scelta tedesca di dar vita a un piano B in caso di default di Atene e il fatto che, entro pochi mesi, il mondo intero conoscerà uno shake up globale senza precedenti e la Fed darà vita a un Qe3 di dimensione mai viste. Lo dico da mesi e mesi, tra accuse di catastrofismo e sarcasmo degno di miglior causa, ora è davanti ai vostri occhi.
P.S. È volato il rendimento dei Bot nell’asta da 11,5 miliardi di euro tenutasi ieri mattina. Il rendimento della tranche di Bot con scadenza a un anno da 7,5 miliardi di euro sale ai massimi dal settembre 2008 (vi ricorda qualcosa questa data?), balzando dal 2,959% al 4,153%. Il rendimento della tranche a 3 mesi da 4 miliardi di euro avanza dall’1,034% all’1,907%. E vola ai massimi anche il rischio sul debito italiano, misurato in cds (credit default swap): i contratti sui titoli del debito con scadenza a 5 anni sono saliti al massimo storico di 505 punti base, contro i 445 punti della Spagna. Insomma, dinamiche greche per il nostro Paese.
E l’Ue, sempre ieri, è stata chiara: Bruxelles ha infatti ricordato di aver già fatto sapere all’Italia che «nuove misure sarebbero necessarie se le entrate dalla lotta all’evasione fiscale dovessero essere più basse di quanto previsto o se dovessero emergere complicazioni nella prevista riduzione della spesa». Insomma, un’altra manovra correttiva entro poche settimane. E la parabola greca si avvicina.
P.S. 2 L’Italia guarda alla Cina e si augura che Pechino possa effettuare «significativi» acquisti di bond e investimenti in società strategiche. Lo riportava ieri sera il Financial Times, citando alcuni rappresentanti del governo italiano, secondo i quali Luo Jiwei, presidente di China Investment Corp (Cic), uno dei maggiori fondi sovrani al mondo, avrebbe guidato la scorsa settimana una delegazione in Italia per parlare con il ministro delle finanze, Giulio Tremonti, e Cassa Depositi e Prestiti.
Nelle scorse settimane una delegazione italiana è andata in Cina per incontrare Cic e la State Administration of Foreign Exchange (Safe), che gestisce le riserve estere cinesi. Secondo il Financial Times, il 4% dei 1.900 miliardi di dollari di debito italiano è nelle mani della Cina. «La crisi – evidenziava il Financial Times – ha spinto l’Italia a considerare la possibile vendita di quote strategiche in Enel ed Eni». Non una cosa da poco, visto che sull’onda di questa notizia Wall Street ha virato e chiuso le contrattazioni in positivo e l’euro ha guadagnato terreno sul
dollaro chiudendo a 1,3660 sul dollaro.
Vero? Falso? Aveva messo in evidenza questa ipotesi già tre settimane fa ma un qualcosa mi fa propendere per una voce dal sen sfuggita, quantomeno nel breve. Ovvero che giovedì scorso, Giulio Tremonti in persona – non gli imprecisati “funzionari italiani” citati dal Financial Times – aveva tagliato corto sulla faccenda in questo modo: «Quando parli con l’Asia ti dicono: “Noi non capiamo cosa sia l’Europa”. Il secondo punto è che ti dicono, “Se la vostra banca centrale non compra i vostri bonds, perché dovremmo farlo noi”». Non lo so, certo sarebbe una mossa risolutiva e un grande schiaffo in faccia a Francia e Germania, ma temo che l’emergenza e la voglia di restare in sella del premier stiano facendo un disastro, se quanto riportato dal Financial Times fosse vero: trasformare l’Italia in un protettorato cinese. A quel punto, meglio il default.