Il summit Fao
Il recente summit della Fao, tenutosi a Roma all’inizio di giugno, è un tipico esempio di meeting sbagliato, in un momento e con partecipanti sbagliati. Più che affrontare i problemi alimentari che affliggono il mondo, il suo scopo sembra essere stato riportare la Fao sulla scena mondiale. Negli ultimi decenni, la Fao è diventata il parente povero delle organizzazioni internazionali, anche perché gestita in modo inefficiente, con molte posizioni al suo interno ricoperte più per motivi politici che per reali capacità professionali.
In questo periodo, i protagonisti sono stati il Fondo Monetario Internazionale e
Un collettivo di capi di Stato non è lo strumento migliore per dipanare materie decisamente complicate e per prendere decisioni a nome dell’intera comunità mondiale. I comitati già normalmente non funzionano un granché e un comitato pieno di leader, ognuno dei quali potente nel suo paese, funziona ancora peggio. Il Fondo Monetario e
La Fao invece non ha nessuna struttura di questo tipo e ha confuso una sorta di Assemblea Generale, dove ogni leader tende a produrre discorsi ad effetto per i notiziari TV del proprio paese, con una seria iniziativa politica che, sul piano internazionale, è meglio se affidata ai funzionari di alto livello.
Ciò significa che se fosse stato organizzato in questo diverso modo, il summit avrebbe avuto migliori risultati? Probabilmente no, perché incontri di questo genere possono fornire chiare risposte solo se vi è un consenso di opinioni, quanto meno di massima, tra gli esperti che fungono da consiglieri dei delegati. Per esempio, ora vi è un’opinione abbastanza condivisa a livello internazionale sulle cause e almeno su alcune conseguenze del riscaldamento globale, ma non era questa la situazione 10 o 15 anni fa. La conferenza sui cambiamenti climatici, organizzata dalle Nazioni Unite a Bali nel dicembre
Questo non vale per l’attuale crisi alimentare, poiché non vi è nessun accordo sulle cause del forte incremento dei prezzi e la discussione attorno alle sue conseguenze è appena iniziata. Non vi è totale accordo neppure sul fatto che ci sia una vera crisi e, quindi, non c’è da meravigliarsi se i leader politici non sono riusciti a raggiungere nessuna rilevante conclusione.
Cosa occorrerebbe fare
Il summit della Fao si è rivelato povero di proposte concrete, ma allora cosa bisognerebbe fare? In primo luogo, sarebbe necessario non esagerare l’ampiezza del problema, dato che non si hanno ancora informazioni sufficienti per sapere a che livello rimarranno i prezzi e fino a quando rimarranno così elevati. L’agricoltura è diversa dall’energia o dai metalli e per i prodotti a raccolto annuale la risposta può essere rapida. Per esempio, attualmente i prezzi del frumento e del riso tendono a calare, piuttosto che crescere. Sarebbe bene, quindi, sospendere un giudizio definitivo fino a quando non si sarà vista la reazione dei raccolti di quest’anno all’azione dello stimolo dei prezzi già in atto sul mercato.
Allo stesso tempo non dobbiamo però abbassare
La questione dei biocombustibili solleva un altro punto di domanda. I prezzi elevati del petrolio rendono più attraente, per i paesi importatori, l’utilizzo di combustibili alternativi e la conversione di mais e oli vegetali alla produzione di biocombustibili rischia di assorbire gli aumenti di produzione di questi prodotti derivanti dagli aumenti del loro prezzo. Se i quantitativi offerti saranno adeguati alla accresciuta domanda, non vi saranno tensioni sui prezzi, ma è ancora troppo presto per saperlo.
C’è un’altra ragione per non esagerare il problema ed è che i prezzi alti generano perdite, ma anche guadagni. Perciò, la valutazione dell’impatto globale rimane difficile e assume, inevitabilmente, aspetti politici. La preoccupazione dovrebbe focalizzarsi sui poveri e in particolare sui poveri delle nazioni più povere. Non si dovrebbe perdere di vista un punto cruciale: l’aumento dei prezzi dei beni alimentari trasferisce potere d’acquisto dai poveri delle città, che sono consumatori di questi beni, alle aree urbane dove vivono gli agricoltori. Gli effetti finali sulla povertà diventano quindi complicati da definire: i poveri urbanizzati perdono, ma gli agricoltori, che possono essere altrettanto poveri, guadagnano. I nuclei familiari rurali che non hanno terra da coltivare, e che rappresentano forse i membri più poveri della società, probabilmente anche perdono, ma ciò dipende da come si diffondono i benefici dell’accresciuta prosperità delle aree rurali, che possono creare maggiori e più remunerative opportunità. Come si dovrebbero valutare le perdite delle aree cittadine a fronte dei guadagni di quelle rurali? Dal punto di vista politico, è chiaro che molti governi dei paesi in via di sviluppo tendono a dare maggior peso alle città piuttosto che alle campagne, se non altro perchè nelle città sono più esposti a proteste e possibili colpi di Stato.
La comunità internazionale dovrebbe però assumere una posizione più equilibrata. Comunque, se vogliamo che l’agricoltura rivesta maggiore importanza nello sviluppo, dobbiamo aspettarci un trasferimento di potere d’acquisto alle campagne. L’invito a investire di più in agricoltura richiede esattamente questa redistribuzione di reddito.
Un secondo punto generale è che occorre lavorare con e non contro il mercato. Questa è una lezione che i governi hanno appreso, o stanno apprendendo, in modo duro. Quando i consumatori nelle città protestano contro l’aumento dei prezzi, del petrolio, del riso o degli oli vegetali, i governi sono pressati ad intervenire, con sussidi o divieti delle esportazioni. Bloccando i meccanismi del mercato, gli incentivi, ai produttori per aumentare la produzione e ai consumatori per ridurre il consumo, diventano più deboli. Nessuna di queste misure incide sulla concreta mancanza di prodotto, ma semplicemente la sposta altrove e, alla fine, sul punto più debole della catena, appunto i paesi che sono costretti ad importare a qualsiasi costo e che meno possono permettersi di distribuire sussidi. Per quanto riguarda il riso, questo è stato il caso di Haiti.
La costituzione di scorte pubbliche è un’altra proposta che emerge durante i periodi con i prezzi alle stelle. Dovremmo aver già duramente imparato che si tratta di meccanismi costosi e inefficienti per far fronte alla mancanza di prodotti alimentari. Il loro alto costo deriva dal fatto che i governi non sanno fare il mestiere dei commercianti: i costi finanziari, amministrativi e per il deperimento sono molto più alti che non nell’equivalente settore privato. Sono poi inefficienti, perché più il settore pubblico aumenta le riserve, meno incentivi ha il settore privato allo stoccaggio, che diminuisce consistentemente. Infine, a parte tutto questo, non è molto intelligente iniziare una politica di stoccaggio pubblico proprio quando i prezzi sono al livello più alto.
Si tratta quindi di una risposta politica non ragionata dei governi e delle istituzioni internazionali fronteggiare in qualche modo l’emergenza. Per riprendere le parole di un personaggio di una serie televisiva inglese degli anni ’80, Sir Humphrey Appleby: “ Dobbiamo fare qualcosa. Questo è qualcosa. Perciò dobbiamo fare questo”. In situazioni come le attuali, sarebbe bene riflettere e non mettere a repentaglio il progresso degli ultimi decenni.
Concludendo, non si dovrebbero prendere iniziative politiche frettolose, prima di aver capito quanto durerà l’aumento dei prezzi in corso e le conseguenze sui poveri. In questa fase, occorre spendere tempo e risorse nella ricerca, che dovrebbe concentrarsi sui biocombustibili e il loro impatto, e sulle cause dell’incremento dei prezzi di fertilizzanti e costi di trasporto. Dovremmo attendere di vedere come i mercati reagiranno alla nuova situazione, prima di intervenire con modalità che ne impediranno invece