Ieri Donald Trump ha “sparato” un paio di tweet che hanno fatto notizia. Con il primo, il presidente americano minacciava dazi del 20% su tutte le auto importate dall’Europa, se i dazi europei sulle merci americane non verranno tolti; con il secondo, in una giornata in cui il petrolio è salito di oltre il 4% dopo la riunione dell’Opec, diceva di augurarsi che l’Opec aumentasse l’offerta in modo sostanziale per tenere i prezzi bassi. Nel secondo caso sappiamo per certo che gli auspici non sono stati esauditi; nel primo non sappiamo cosa deciderà l’Europa, ma non tira una bella aria.
Parlare di dazi all’importazione di auto dell’Europa significava ovviamente colpire la Germania con il suo surplus commerciale fuori scala. Dal punto di vista americano, la Germania compete con una valuta artificialmente bassa, l’euro e non il marco, e in più si rifiuta di allinearsi agli obiettivi geopolitici americani. Rimanendo nell’ambito meramente economico, è davvero difficile dare torto agli americani, che sostengono di essere oggetto di una competizione scorretta.
Per risolvere il problema ci sono due modi. Il primo, è che la Germania torni ad avere una valuta che rifletta la propria incredibile forza industriale e finanziaria, con un debito su Pil in costante calo; con i chiari di luna attuali, escludendo la vicenda Deutsche Bank, e il debito su Pil della maggiore economia del globo, gli Stati Uniti, in forte salita, la Germania oggi, se avesse il marco, si troverebbe a esportare con una valuta molto forte.
Il secondo modo è che la Germania si metta a spendere. Non solo per risollevare le economie di alcuni Paesi dell’area euro; per esempio quella greca, per cui ieri si sono sentite persino delle congratulazioni per l’addio della Troika: un’economia devastata e una nazione letteralmente depredata, a prezzi di saldo, di tutti gli asset pregiati. La Germania non spende neanche per se stessa e nemmeno per le proprie infrastrutture; se lo facesse, alimenterebbe la crescita europea con le imprese del mercato comune, che beneficerebbero di una maggiore domanda interna.
Questo però significherebbe rivedere il modello economico tedesco, imposto al resto dell’Europa: tutto basato sulle esportazioni e che quindi ha bisogno di una valuta debole o non troppo forte e che all’interno non ci sia troppa inflazione, nemmeno quella derivante dalla piena occupazione.
Le richieste di Trump, giuste o sbagliate, mettono sotto pressione tutta l’Europa e rivelano la fragilità di un sistema così tanto dipendente dalle esportazioni. Potrebbe essere un’occasione per l’Europa per ripensare il proprio modello economico e di sviluppo.
Le pressioni di Trump sull’Opec, invece, ci fanno molta meno compassione. Una delle principali questioni che aleggiano sul mercato del petrolio è il crollo degli investimenti in nuove scoperte. Dopo il crollo dei prezzi dell’autunno del 2014 le società petrolifere hanno reagito dimezzando gli investimenti; dopo quattro anni di investimenti al lumicino il mercato comincia a risentirne e la capacità di aumentare la produzione dell’Opec, in caso di shock, è ai minimi di sempre. Senza un crollo della domanda i prezzi potrebbero anche surriscaldarsi.
In questo caso gli Stati Uniti di Trump non sono incolpevoli. Lo shale oil americano, pompato in modo scriteriato e molto spesso senza ritorni economici in un clima di liquidità facile per tutti, anche per le imprese che perdevano soldi, è stata una delle cause principali, se non la principale, del crollo dei prezzi. Un’analisi dei bilanci dei produttori di shale oil americani evidenzia in molti casi incredibili distruzioni di valore, in cui si continuava a produrre senza riguardi per la redditività; è stato un fenomeno nato e cresciuto con la complicità delle politiche ultra espansive della Fed e che ha rappresentato un elemento di rottura nel mercato del petrolio. La produzione non si fermava neanche con prezzi particolarmente depressi, perché c’era sempre qualcuno disposto a prestare soldi in un clima di tassi a zero.
Oggi gli Stati Uniti producono molto più petrolio di cinque anni fa, più del doppio di dieci anni fa, e si avviano, è una questione di mesi, a essere il più grande produttore di petrolio globale; questa posizione è stata conquistata facendosi largo in modo brusco e senza troppi riguardi per le prospettive di medio-lungo termine del mercato, continuando a produrre a qualsiasi prezzo. Oggi i nodi vengono al pettine, ma non ci si può lamentare dell’Opec.