Uno dei più stimati economisti al mondo, Preside della Facoltà di Economia alla Fordham University di New York dove vive, Consulente alle Nazioni Unite, Fondo monetario internazionale, Banca Mondiale, Economic Policy Institute di Washington, e varie Banche centrali e multinazionali. Un suo testo “International Economics”, tradotto in più di 10 lingue, è il più venduto al mondo sul tema. Non solo ha origini italiane, ma parla del nostro Paese come se fosse il suo. Insegna anche a Shanghai e Pretoria. E proprio dalla città sudafricana è arrivato a Milano per una conferenza organizzata da Valore, società milanese di consulenza ed education, sul tema dell’euro. Stiamo parlando di Dominick Salvatore, che abbiamo raggiunto per fare un punto della situazione europea e italiana.
Cominciamo con un parere sul risultato delle elezioni europee. Secondo lei, questo voto può rappresentare l’inizio di una svolta per un’Europa che ancora stenta a ripartire e a riprendersi dalla crisi?
La cosa importante è che chi ha la responsabilità di governare, sia che abbia perso o che abbia guadagnato voti, capisca che l’austerità è necessaria ma non in una situazione di crisi. Se ci sarà una svolta nella ripresa della crescita, avverrà perché il sistema e le sue regole verranno cambiate.
Quindi la parola d’ordine è “riforme”?
Il problema delle riforme è che costano e i costi sono da affrontare subito, mentre i benefici vengono dopo. Le riforme andrebbero fatte quando l’economia va meglio, ma in quel momento manca l’interesse a farle. Poi in momenti di crisi ci si rende conto di quanto siano importanti, ma non si hanno i soldi per farle…
Proprio come sta accadendo in Italia…
Adesso tutti ci auguriamo che Renzi faccia quello che deve fare e che cominci il prima possibile… Ma ciò che farà, che beneficio porterà alla competitività? Quale traguardo si prefigge? Per un raffreddore gli antibiotici non servono, ma per una polmonite sì. Se risolverà il 20% dei problemi, sarà troppo poco.
Il successo di Renzi alle europee viene letto come un mandato esplicito degli elettori: non ci sono più alibi per rimandare le riforme…
L’Italia aveva un tenore di vita e un Pil procapite fino al 2000 superiore del 10-15% a quello inglese e francese. Senza avere ciò che la Francia ha: grandi imprese, infrastrutture di prima categoria e una scuola di Pubblica amministrazione. Siccome l’Italia è un Paese ricco (la ricchezza delle famiglie è superiore in Italia che in Germania) ci si è finora adeguati, ma dopo vent’anni di graduale declino, oggi la situazione è drammatica.
Può darci un’idea più precisa?
C’è un indice ufficiale della competitività internazionale che vede gli Usa come Paese più competitivo. In questa graduatoria l’Italia risulta meno efficiente degli Usa del 44%. Inghilterra e Giappone del 30%, la Germania del 20%. L’Italia è l’unico Paese avanzato al mondo dove la produttività del lavoro è diminuita: con più preparazione tecnica, più tecnologie, più capitali, un’ora media di lavoro produce oggi meno di dieci anni fa. Cosa incredibile! Cos’è successo? Abbiamo dimenticato cose che sapevamo fare?
Appunto, cos’è successo?
L’Italia fa delle politiche del tutto sbagliate. Io penso che ci sono persone che hanno buone intenzioni, ma non sanno quello che fanno. Sia Montezemolo, quando era presidente di Confindustria, che Letta dicevano: siamo un’economia aperta, ben vengano gli investitori stranieri. Ma l’apertura al mercato va gestita facendo politiche d’incentivazione. Noi dovremmo innanzitutto valutare le nostre competenze di base e valorizzarle per crescere. Invece sembra che l’unico incentivo sia quello di disfarsi dei gioielli nazionali. E così, profitti e know-how vengono portati all’estero. Non sappiamo valorizzare le cose che sappiamo fare meglio degli altri.
Ad esempio?
Tutte le catene di grandi alberghi in Italia sono possedute da stranieri, americani, francesi e inglesi. Altro esempio: l’Italia aveva battuto la Francia nella moda. Cosa hanno fatto i francesi? Hanno acquistato tutto: Gucci, Fendi, Bottega veneta, Bulgari… Fino agli anni ‘70 l’Italia non aveva niente da invidiare a Francia e Inghilterra: chimica, meccanica… Abbiamo venduto tutto.
Oltre a valorizzare ciò che possediamo?
Quelli che si occupano delle politiche fanno anche l’errore di voler dare subito delle ricette facili per risolvere i problemi, prima di capire le ragioni di quanto accade. E allora bisogna andare a monte e vedere dove sorge il problema.
Qual è l’origine del problema?
C’è una serie di fattori che concorrono a rendere bassa la competitività italiana: i regolamenti a cui sono sottoposte le imprese sono impossibili da seguire; in Italia aprire un’impresa costa 24 volte più che in Inghilterra; per la facilità con cui si fa impresa siamo al 65° posto su 189 paesi: tutti i paesi avanzati sono davanti a noi. Il risultato è che stanno chiudendo imprese che non meritano di chiudere. Chi rimane in Italia a fare impresa non è solo un “cavaliere del lavoro”, ma un eroe del lavoro.
E poi?
L’Italia è 87° su 144 paesi nei programmi Ocse-Pisa: la scuola non forma. Siccome abbiamo 34 paesi avanzati davanti a noi, significa che le restanti 53 posizioni sono occupate da Paesi emergenti. Poi ci sono altre cose.
Quali?
La pressione fiscale. Perché è più alta che altrove? Negli Stati Uniti e in Giappone va dal 30% al 32%, in Spagna e Inghilterra dal 37% al 38%, in Germania è del 44%, in Italia del 49%. Se la popolazione ne ricevesse i benefici, avrebbe un senso (anche se penso che ciò che può fare il mercato non dovrebbe farlo lo Stato). Sul mercato del lavoro si è fatto qualcosa ma è ancora poco. Dal 2000 a oggi il costo unitario del lavoro in Germania è aumentato del 12%, in Italia del 42%, in Francia, Spagna e Giappone è aumentato tra il 30% e 32%. E poi ci sono delle cose fuori dal mondo…
Per esempio?
Quando un’impresa lavora per l’ente pubblico, non solo non viene pagata, ma deve anche pagare le tasse su quel lavoro prima di ricevere il compenso. Quando lo dico ai miei amici americani non ci vogliono credere. In Italia siete abituati a questo, ma da noi è incredibile. Poi la corruzione: su 60 paesi l’Italia è al 40° posto; l’immagine della nazione all’estero: 45° su 60. E pensare che la malata dell’Europa nel 2000 non era l’Italia e nemmeno la Spagna, ma la Germania…
Poi cosa è successo?
Schroeder ha fatto le riforme e la Germania è diventato il Paese più efficiente d’Europa, anche a spese degli altri. La Germania è senza dubbio il Paese più capace di salvaguardare i suoi interessi. Nella crisi ucraina, ad esempio, anche le imprese francesi e inglesi hanno contratti con i russi, mica solo quelle tedesche. Ci sono delle cose che devono essere messe al di sopra del beneficio delle imprese per il bene di tutta la comunità.
Accade qualche volta?
Quando recentemente General electric ha cercato di acquistare la francese Alstom, il governo francese si è opposto, difendendo l’idea che una sua grande impresa non dovesse andare in mano straniera. Dopo essere stata criticata per aver chiuso le frontiere all’impresa Usa, si è rivolta alla tedesca Siemens. Perché l’azienda rimanesse europea si è pensato a una strategia, giusta o sbagliata, nell’idea di salvaguardare la comunità di appartenenza.
E poi ci sono le regole di finanza pubblica…
Il tetto del 3% del deficit chi l’ha imposto? La Germania e la Francia. E chi lo ha superato per prima? Francia e Germania, senza colpo ferire, senza nemmeno pensare di doversi giustificare. In Francia il deficit è il 4% del Pil, in Spagna è al 6%. E noi andiamo in Europa a chiedere il permesso per fare uno sforamento che ci è necessario. L’Italia vuole fare l’europeista a scapito dei suoi cittadini.
L’anno scorso in un’intervista ci ha detto che la Bce avrebbe potuto aiutare l’Italia in cambio di riforme. Oggi che suggerimento darebbe a chi governa il nostro Paese in tema di rapporto con l’Europa?
Direi: lasciateci la possibilità di superare la soglia del 3% e noi faremo le riforme, in mancanza delle quali accetterei di pagare delle sanzioni.
Giovedì si riunirà il board della Bce. Ci si aspetta che Draghi annunci delle misure di stimolo. Cosa dovrebbe fare l’Eurotower per rilanciare l’economia europea e per rendere l’euro uno strumento utile per uscire dalla crisi?
Innanzitutto, non so se altri sarebbero stati in grado e disposti a fare quello che ha fatto Draghi. Trichet no di certo. Draghi ha già salvato l’euro. Il problema è che secondo le direttive che la Banca centrale si è data non può fornire aiuti diretti agli Stati in deficit. Draghi ha trovato il modo per aggirare questa regola dando alle banche un trilione, cioè mille miliardi di prestiti all’1% per tre anni.
Ma le imprese non ne hanno beneficiato…
È normale che le banche non hanno dato prestiti alle imprese perché le imprese hanno bisogno di prestiti per più di tre anni. E poi perché avrebbero dovuto rischiare? Se potevano ricevere all’1% perché avrebbero dovuto acquistare titoli di Stato al 3%? Cosa può fare adesso la Bce? I tassi sono già a un quarto dell’1%, non può andare a zero. Cartolarizzazioni? Sì, può farlo, ma il problema rimarrebbe un altro.
Quale?
Il problema, soprattutto in Italia, è che non si riesce a competere. Il problema non è l’euro, ma la competizione. Ma non si tratta solo dell’Italia e dell’Europa. Ci sono previsioni che la crescita mondiale diminuirà. Ripristinare la crescita di un’area in un contesto mondiale di questo tipo, è ancora più difficile.
L’euro in questo momento con il suo cambio molto forte e con gli squilibri che ci sono tra i vari Paesi dell’Eurozona non sembra uno strumento per uscire dalla crisi. In che modo può esserlo?
Il problema è che si è entrati nell’euro con una lira sopravvalutata del 20-25%. Ci si è tirata la zappa sui piedi. Io e pochi altri insistevamo che l’Italia non avrebbe dovuto entrare con un cambio a più di 1400-1500 lire. Certo, dovevamo entrare, ma avremmo dovuto giocare più di strategia perché senza Italia l’euro non si sarebbe fatto. Ancora adesso, pur di fronte all’evidenza che ci siamo dati una mazzata sui piedi, c’è chi insiste che la lira non è stata sopravvalutata ma sottovalutata… Il problema non è l’euro, ma che ci siamo entrati con una moneta sopravvalutata e per di più non riusciamo a competere. Non voglio essere troppo negativo solo che bisogna guardare i problemi nella loro origine…
Queste sue valutazioni mi fanno pensare che serva guardare l’Italia da fuori per avere un giudizio così accorato sulle sue sorti…
Ho scritto un testo di economia internazionale che è il più venduto nel mondo, eccetto che in Italia. Qui sono scomodo. Tutti dicono di volere le riforme senza capire che le riforme ci toccano da vicino. Vivo negli Stati Uniti da 50 anni, ci sono arrivato appena dopo le scuole medie. Spesso mi chiedono: “dici ‘noi’ o ‘voi’ italiani?” Io rispondo che mi piacerebbe dire “noi” italiani, però voi potreste dire “non ti vogliamo”, beh, decidete voi…
Nella sua introduzione al volume “Leadership responsabile” di Francesco Sansone (Franco Angeli), lei scrive che uno dei fattori decisivi della rivoluzione a cui stiamo assistendo è “una nuova information economy che basa la creazione di valore sul sapere e sulle comunicazioni”: c’è una relazione tra questo fattore e le stime di minor crescita a livello mondiale?
Sì, non tutto aumenta la produttività. La crescita è data soprattutto dalle innovazioni tecnologiche e pare che la portata di queste innovazioni sulla produttività stia calando… Speriamo che questi signori si sbaglino.
In “Le capital au XXIe siècle” Thomas Piketty individua nello squilibrio tra crescita economica e rendita del capitale una delle principali contraddizioni del capitalismo. Si potrebbe dire: “del capitalismo finanziario”? Non è questo il responsabile dell’aumento dei grandi patrimoni e quindi delle disuguaglianze? Cosa ne pensa?
Nel libro di Piketty alcuni dati sono riportati in modo un po’ approssimativo, inoltre propone di aumentare le imposte all’85%. Cos’è successo quando è stato proposto in Francia? Se ne sono andati in tanti… Un certo grado di ineguaglianza è necessario, quando è elevato non va bene. Ora negli Stati Uniti c’è più ineguaglianza che in Europa. Negli Usa vogliamo il più possibile l’uguaglianza delle opportunità, non dei salari. In Europa un perito tecnico guadagna solo il 5% in meno che un ingegnere. Quindi non c’è una ragione economica per andare a fare ingegneria.
Però disuguaglianza in questo momento significa aumento della povertà di fasce già provate…
La troppa disuguaglianza è ingiusta e scoraggia la crescita, oltre a comportare instabilità politica e sociale. È difficile trovare un equilibrio: occorre eliminare gli eccessi di disuguaglianza, ma, ripeto, una certa disuguaglianza è necessaria, gli esseri umani hanno bisogno di incentivi. Uno studente senza esami non studia. Non esiste una misura uguale per tutti, il livello di disuguaglianza dipende dal sistema.
Diceva del sistema americano…
Io sono un prodotto di questo sistema, ho frequentato il City College (chiamata la Harvard del proletariato), dove per entrare devi essere bravo, ma se sei bravo vieni ammesso senza pagare… L’università dove insegno ammette il 38% degli alunni non preparati ma portati. Lula, una persona che non è nemmeno diplomata, a un certo punto si è chiesto: i poveri starebbero meglio se ci fosse uguaglianza di reddito ma con bassa crescita? Si è dato secondo me la risposta giusta: i poveri starebbero meglio se permettiamo una certa disuguaglianza ma incentivando la crescita.
In Europa un welfare universalistico funge da sistema redistributivo…
Però poi chi ha capitali li investe altrove e non si creano posti di lavoro…
Stati Uniti e Unione europea stanno portando avanti i negoziati per un accordo di libero scambio (The Transatlantic Trade and Investiments Partnership). Quanto può essere importante? Quali vantaggi porterà? Cosa avrebbero da guadagnarci rispettivamente Usa, Ue e Italia?
Il commercio è già abbastanza libero, non credo che liberalizzarlo del tutto possa portare a chissà che benefici. Tutto aiuta ma non ci si può attendere chissà che.
(Silvia Becciu)