La crisi dei mutui subprime è iniziata nell’estate 2007. È esplosa nel 2008, come crisi finanziaria globale. Nella seconda metà del 2008 ha fatto sentire i suoi rilevanti effetti sul sistema economico. Nel primo trimestre del 2009 le principali economie industrializzate hanno fatto segnare contrazioni del Pil di dimensioni impressionanti (-7% per la Germania, -5,9% in Italia, -4% in Gran Bretagna, – 3,2% in Francia, – 2,6% negli Usa, in molti casi mai rilevate da quando vengono registrate le statistiche economiche delle varie nazioni.
Qualche segnale positivo si registra a partire da marzo 2009: in Italia le vendite al dettaglio sono aumentate dello 0,1% rispetto al mese precedente. Gli ordini del comparto industria sono scesi solo del 2,7%, sempre rispetto al mese precedente. I mercati finanziari non hanno più registrato salvataggi o fallimenti di istituzioni bancarie. I mercati azionari hanno recuperato punti percentuali rispetto al dicembre 2008. Molti osservatori indicano che – a circa 21 mesi dall’inizio della crisi finanziaria – stiamo vivendo un periodo di rallentamento della crisi economica. Possiamo quindi tentare di identificare quali sono le cause della crisi che stiamo vivendo.
Come hanno sottolineato molti autorevoli commentatori (in primis Guido Tabellini su Il Sole 24 Ore del 7 maggio 2009), esiste una causa tecnica della crisi: la regolamentazione finanziaria, che ha portato a una amplificazione degli effetti dello shock iniziale legato alla svalutazione dei mutui subprime e dei titoli a essi collegati. I vincoli di Basilea impongono alle banche di ridurre i debiti a fronte di una perdita sugli investimenti. Questo comporta vendite di titoli e quindi una riduzione del loro valore, che a sua volta spinge gli investitoti a vendere titoli per ridurre le perdite. Da qui il collasso dei mercati finanziari osservato nel 2008.
La causa tecnica ha certamente avuto un ruolo importante, ma esistono ragioni più profonde. Possiamo avanzare due ipotesi di fondo della crisi economica globale che stiamo vivendo: la prima è legata a una miopia gestionale (sia delle banche sia delle imprese). La seconda è invece legata a un fattore di non-realismo: imprese e famiglie hanno infatti vissuto per anni pervase da un eccesso di ottimismo rispetto all’economia reale.
In merito alla miopia gestionale, le banche hanno adottato criteri per la gestione dei patrimoni basati sull’obiettivo di una sfrenata ricerca della rendita – ossia dell’incremento del capitale – perdendo di vista la necessità, per diminuire i rischi, di comprendere tutti i fattori dell’oggetto dell’investimento stesso. Essi sono legati ai vantaggi e svantaggi dell’investimento in una certa realtà imprenditoriale, al suo capitale sociale, ai valori che ispirano l’imprenditore e i lavoratori in essa coinvolti, ai legami con il contesto produttivo e territoriale.
Questo ha portato al venir meno di uno dei pilastri della leva finanziaria: la fiducia (il trust) come fattore che permette di ridurre l’asimmetria informativa tra chi riceve un capitale e chi lo presta. La stessa miopia ha spesso caratterizzato la gestione delle imprese, soprattutto di grandi dimensioni: le decisioni sono state orientate alla massimizzazione del profitto di breve periodo, piuttosto che a salvaguardare il valore dell’impresa nel tempo.
In merito all’economia reale, imprese e famiglie hanno ritenuto che non ci fosse limite alla crescita e al miglioramento degli standard di vita. Le famiglie hanno pensato che gran parte dei beni e dei servizi fossero comunque acquistabili, indipendentemente dal livello del reddito, ricorrendo all’indebitamento. Uno slogan pubblicitario di successo di questi anni rende bene l’idea di questo non realismo da parte delle famiglie e dei consumatori più in generale: “Alcune cose non hanno prezzo. Per tutto il resto c’è Mastercard”.
Questo ha portato a una domanda di beni e servizi in parte “drogata”. Le imprese hanno reagito a questo eccesso di domanda dotandosi di troppa capacità produttiva, che verrà necessariamente ridotta in questi anni (portando con sé purtroppo conseguenze anche per l’occupazione). Le famiglie e i consumatori soffrono di un eccesso di indebitamento: la conseguenza è un livello eccessivo di indebitamento. In Gran Bretagna alla fine del 2006 il debito dovuto ai mutui era pari a circa l’80% del Pil, negli USA al 75%, in Spagna al 60%, in Germania al 45%. Una cifra più bassa si registra per l’Italia dove l’indebitamento privato è circa il 20% del Pil. Esiste una fondamentale differenza tra debito privato e debito pubblico: i governi possono sempre decidere di stampare moneta (come hanno fatto in questo periodo per acquistare le banche in difficoltà o aiutare i salvataggi delle case automobilistiche), le famiglie no. Sono costrette a rientrare dal debito.
Se queste sono delle possibili cause della crisi, rappresentano anche una base su cui fondare l’uscita e il dopo crisi. I pilastri su cui costruire sono:
Un maggiore realismo nelle decisioni in merito agli standard di vita. Le decisioni di consumo devono essere orientate ai livelli di reddito della popolazione, e la leva del debito privato va utilizzata con oculatezza, non perdendo mai di vista la necessità di rientro del debito;
Una ripresa dei valori dell’imprenditorialità, ossia la valorizzazione delle motivazioni ideali del fare impresa, che sono legate alla realizzazione dei talenti (innanzitutto quelli dell’imprenditore, ma anche dei lavoratori che condividono l’avventura imprenditoriale), al mettersi in gioco in proprio (numerosi imprenditori in questo grave periodo di crisi hanno deciso di continuare l’attività coprendo le perdite con il proprio patrimonio personale), alla responsabilità sociale nei confronti del territorio in cui sono inserite (il successo dell’imprenditore è legato ad un talento personale ma anche a fattori presenti nel territorio in cui opera, come la cultura imprenditoriale, il capitale umano disponibile, le infrastrutture, ecc.);
Un effettivo sistema di welfare society, che realizzi finalmente un approccio sussidiario nei confronti dell’economia. Esso consiste innanzitutto nel garantire una effettiva libertà di impresa e ridurre i privilegi e le rendite presenti nei vari mercati, e nello sviluppare le relazioni tra imprese, istituzioni non profit e istituzioni pubbliche presenti nel territorio (la cosiddetta sussidiarietà esterna per l’impresa). La libertà di impresa è fondamentale per liberare le opportunità e i talenti e sostenere il ciclo di sviluppo economico. La sussidiarietà esterna è cruciale per ancorare la gestione ai valori reali e far crescere la responsabilità sociale.