La resa dei conti è in arrivo. È lì, ci guarda appoggiata all’uscio di casa, ci attende, pochi mesi e occorrerà davvero affrontare la realtà. Che è la seguente: i detentori di bond si preparino a una bella condivisione del prezzo della crisi (burden sharing), gli Stati si garantiranno forzatamente un sollievo dal debito attraverso severi haircut dei rendimenti o, addirittura, mancati pagamenti degli stessi e gli investitori pagheranno il prezzo per la loro incapacità di capire che un’unione monetaria, tra l’altro molto eterogenea, non elimina il rischio. Semplicemente lo sposta, da rischio sul tasso di cambio a rischio di default.
D’altronde, gli investitori che hanno comprato bond greci decennali a 26 punti base di spread sul Bund nel 2007, un differenziale al di sotto di quello tra British Columbia e Quebec, pensavano di essere i più furbi? Non sapevano che la Grecia stava giocando a nascondino con i suoi conti peggio di Houdini? A rendere chiaro quanto attende molti protagonisti del mercato obbligazionario, ci ha pensato la scorsa settimana la Cancelliera, Angela Merkel, secondo cui «dobbiamo tenere bene a mente il fatto che la nostra gente ha il giustificato desiderio di vedere anche il settore privato, e non solo i contribuenti, appesi al gancio di questa situazione». Parole che sembrano una fotocopia di quelle pronunciate pochi giorni prima da Alex Weber, presidente della Bundesbank, per il quale «la prossima volta che accadrà una situazione simile sarà davvero un problema, i detentori di bond dovrebbero essere parte della soluzione e non del problema. Fino a ora gli unici ad aver pagato una prezzo per la soluzione sono i contribuenti».
E questi concetti non sono rimasti aleatori, sono diventati i termini imposti dalla Germania al meeting europeo di venerdì scorso – di cui in Italia non abbiamo ricevuto notizia, salvo per i bunga-bunga del premier – per la creazione di un fondo di salvataggio permanente nel 2013. Siamo alla vigilia di una riforma del trattato europeo, stante l’articolo 48 del Trattato di Lisbona, necessaria per Angela Merkel al fine di evitare un vero e proprio pastrocchio: come scrivevamo alcuni mesi fa, la Corte costituzionale tedesca non ha affatto archiviato il caso scaturito dalla denuncia di un gruppo di accademici e starebbe per bloccare, attraverso una sentenza, il piano di aiuto alla Grecia per incostituzionalità. «Una riforma mi aiuterebbe molto nei confronti della corte di Karlsruhe», ha candidamente ammesso la Merkel venerdì sera.
Qualcuno potrebbe dire che i detentori di bonds e la loro propensione all’azzardo morale andavano puniti tempo fa, da entrambi i lati dell’Atlantico e non avrebbe tutti i torti, ma ora la situazione è completamente nuova. Oggi ci rendiamo conto che sarebbe stato meglio gestire un’ordinaria bancarotta greca stando ai canoni organizzati dal Fondo Monetario Internazionale o che, comunque, sarebbe meglio dare il via a questa procedura adesso piuttosto che costringere la Grecia verso una spirale di “debt compound” attraverso una crescita del debito pubblico dal 115% del Pil al 150%, livello definito di “salvataggio” del paese. Siamo alla follia, una follia in base alla quale banche e fondi possono spostare 150 miliardi di euro di perdite presso i governi Ue, la Bce o il Fmi: i cittadini greci, in compenso, hanno pagato fino in fondo il prezzo dell’austerity, senza ottenere in cambio una vera cura per il debito.
In parole povere, ciò che la Germania giustamente non vuole più è un salvataggio degli investitori. Lo ha capito una moderata, una donna di centrodestra, non lo hanno capito i socialisti, visto che alle elezioni regionali nella zona di Atene il mese prossimo i comunisti dissidenti del “blocco anti-Memorandum Ue” sembrano destinati alla vittoria e in Portogallo il centrosinistra è sceso al 25% mentre i comunisti e gli estremisti del Bloco insieme toccato il 18%. Ora, aprire una finestra – nemmeno una porta – alla politica di haircut sui rendimenti obbligazionari sarebbe come tirare una bomba a mano sui cosiddetti periferici: se ben ricordate, ilsussidiario.net aveva anticipato l’arrivo di questa politica di autodifesa degli Stati indebitati nello scorso mese di agosto, durante i giorni del Meeting. Soltanto che farlo ora porta con sé rischi di stabilità enormi, argomento che ha fatto andare su tutte le furie Jean-Claude Trichet, ma che ha visto schierarsi al fianco della Merkel e contro Francoforte l’alleato di sempre, un nervosissimo Nicolas Sarkozy.
E il perché di questo rischio è presto detto: gli Stati sovrani dell’eurozona devono emettere qualcosa come 915 miliardi di euro di nuove obbligazioni l’anno prossimo, stando ai dati forniti da Ubs, alcuni in forma di roll over altri come copertura di enormi deficit: ora, con che voglia – pur a fronte di alti rendimenti – gli investitori affolleranno le aste con l’incombente rischio di pesanti haircuts o addirittura di mancati pagamenti da parte degli Stati? Qualsiasi premio di rischio su qualunque debito periferico a scadenza dopo il 2013 rappresenta un terno al lotto: quale può essere infatti la certezza riguardo le condizioni che Francia e Germania imporranno, per dire, a Irlanda e Portogallo per potere usufruire del fondo di salvataggio? Nessuna. E, infatti, uno studio della sempre puntuale Giada Giani di Citigroup intitolato “Bondholders moving back home” dice a chiare lettere che i dati del secondo trimestre dimostrano una secca diminuzione della detenzione estera del debito di Grecia (-14%), Portogallo (-12%), Spagna (-8%) e Irlanda (-5%).
Questo, anche perché le banche locali si sono lanciate senza troppe remore in questo ramo, prendendo a prestito denaro a costo zero dalla Bce per comprare il debito dei loro Stati ad alto rendimento dando vita a un carry trade che concentri il rischio. Peccato che i quattro Stati poco fa elencati pesino per qualcosa come 448 miliardi rispetto ai fondi della Bce per le banche (la Spagna per 98 miliardi e la Grecia per 94): Francoforte non accetta più questa situazione ma per ora cerca di mettere in sicurezza l’edificio. Merkel e Sarkozy vogliono abbatterlo. Inoltre, le entrate fiscali di questo Stato stanno toccando lo zero visto che le politiche di austerity stanno erodendo l’economia e rischiano di imporre ulteriore tagli fiscali: una spirale di crisi che si autoalimenta, a cui i periferici europei non possono porre rimedio visto che a differenza della Gran Bretagna non possono dar vita a stimoli monetari o tassi di cambio più bassi, devono vendere l’argenteria di casa ai cinesi o agli Stati del Golfo, pregare la Bce che ingaggi a pieno la battaglia delle valute per deprezzare l’euro e sperare che la debole ripresa in atto non si blocchi del tutto.
Anche perché le elezioni di mid-term, con ogni probabilità, ci consegneranno un Senato Usa in mano repubblicana, quindi intenzionato a una politica economica più aggressiva ma anche a una rivisitazione dei rapporti internazionali, tema completamente assente dalla campagna elettorale. Non a caso. L’America sa che questo voto è fondamentale per il suo futuro e sa che per sopravvivere le è imposto di essere cattiva, spietata con partner e avversari. Il tutto, nel pieno di una nuova emergenza terroristica globale ad orologeria. Già, non avete notato nulla di sospetto? Il pacco bomba ritrovato venerdì su un aereo cargo a Dubai avrebbe infatti viaggiato anche su due diversi voli passeggeri. L’inquietante particolare è stato reso noto nella serata di domenica dalla compagnia aerea Qatar Airways: l’ordigno secondo la compagnia aerea è stato trasportato su un Airbus A320 della Qatar Airways dalla capitale dello Yemen, Sanaa, fino a Doha, capitale dell’emirato. Qui è – anzi, sarebbe – stato trasferito su un altro aereo della compagnia che lo ha portato a Dubai, dove è stato scoperto e sequestrato dalla polizia locale.
Nascosta nella cartuccia di una stampante, la bomba era indirizzata a una sinagoga di Chicago: non è tuttavia chiaro se lo scopo fosse quello di far esplodere l’apparecchio in volo. Inoltre, il consigliere anti-terrorismo della Casa Bianca, John Brennan, ha fatto sapere con grande tempismo che «non esiste alcuna indicazione in merito alla presenza di altri pacchi bomba ancora in circolazione, ma le autorità americane devono presumere che la possibilità esista e adottare le necessarie misure di sicurezza». A mio avviso, almeno fino alla fine delle operazioni di voto del mid-term. Da questo punto di vista, la penso come Mark Mardell, il principale corrispondente della Bbc dagli Usa: «Non sorprenderete mai la Casa Bianca a sdrammatizzare una minaccia terroristica, specie con una elezione imminente… È stata una soffiata saudita a portare alla scoperta dei “sinistri” ordigni sui cargo diretti in Usa. Ordigni curiosi: cartucce da stampanti coperte di polvere bianca e con qualche pezzo di elettronica attaccato».
Ma non solo: sempre domenica sera – accidenti Halloween ha portato con sé più di uno scherzetto e tutti in contemporanea temporale! – in Yemen è stata rilasciata su cauzione la presunta postina-attentatrice, un’universitaria che non sa nemmeno cosa sia la politica, non il fondamentalismo. Ma perché queste rivelazioni, a poche ore dal voto, quando normalmente si utilizza cautela e silenzio investigativo, visto che lo stesso premier britannico, David Cameron, è stato tenuto all’oscuro di tutto per 13 ore all’atto della scoperta della cartucce killer via corriere aereo? Semplice, stava per diventare di dominio pubblico quanto dichiarato subito dopo l’allarme globale da Mohammed al-Shaibah, direttore cargo della Yemenia Airways: «Né un aereo UPS, né un DHL diretto a Chicago è partito dallo Yemen nelle ultime 48 ore. Sono accuse false e senza fondamento»,ha dichiarato allo Yemen post venerdì 29 ottobre.
D’altronde, di cosa un po’ stranine questa faccenda ne porta con sé parecchie, fin dall’inizio, a partire dal presunto mandante di questi attacchi, l’iman Al-Awlaki. Sapete chi è? Stando al giudizio mai smentito di Webster Tarpley, uno dei principali giornalisti investigativi statunitensi, costui è «un agente americano che opera sotto copertura di fondamentalista islamico per attrarre con la sua predicazione, allevare e indottrinare giovani musulmani scemi da lanciare in attentati scemi e da arrestare prontamente, onde i media possano agitare lo spettro onnipresente del terrorismo islamico».
Forse non è vero, ma il curriculum di un paio di suoi arruolati, parla chiaro. Il primo, “Mutanda bomber”, ossia il giovane nigeriano Umar Faruk Abdulmutallab, si ustionò le parti intime quando la bomba carta che aveva nella biancheria intima esplose senz’altri danni sull’aereo che aveva preso ad Amsterdam diretto a Detroit: un volo su cui fu fatto salire da qualcuno benché privo di passaporto. Il secondo è Faisal Shahzad, il tecnico dei computer con ottima posizione in Usa che nel maggio 2010 lasciò un’auto parcheggiata a Times Square, nel centro di Manhattan, con all’interno un ordigno che non esplose.
Insomma, due Gatti Silvestro del terrorismo. Di certo c’è però che domenica sera la versione on-line del Financial Times denunciava come le nuove rivelazioni americane sui presunti attacchi, spostassero la pressione dal ramo di trasporto cargo a quello passeggeri, per l’ennesima volta. Con costi, disagi, paura di volare che significano danno all’economia dei paesi, nuovi misure di sicurezza da approntare visto che la bomba-cartuccia avrebbe superato i controlli e quant’altro fa parte dell’indotto collaterale del grande business della paura globale.
L’America, questa volta, lotta per la sua stessa sopravvivenza e non farà prigionieri, come è giusto che sia: mi scoccia dirlo ma, forse, occorre lasciare mano libera a Germania e Francia anche se corriamo un forte azzardo, ma Bruxelles dorme e non è tempo di sonnellini. L’esistenza stessa dell’Ue, per come la conosciamo, è a rischio come non lo è mai stata dalla sua nascita.
P.S. Pagina del 3 del Corriere della Sera di domenica 31 ottobre, articolo di taglio centrale a firma del notista politico Massimo Franco dal titolo “Il distacco della Lega e le ipotesi sul dopo”. Cito testualmente: «Forse non ha tutti i torti chi ritiene che la speculazione finanziaria attaccherebbe l’Italia più con un governo diverso, “di emergenza”, che con Berlusconi a Palazzo Chigi; e ricorda che l’Ue, quando si è trattato di aiutare una Grecia sull’orlo del fallimento, ha puntato sull’esecutivo che c’era, perché era legittimato dal voto». Se l’house organ dei poteri forti comincia a scrivere queste cose, mi vengono i brividi. Fossi Giulio Tremonti, alla luce del contesto europeo che abbiamo prima descritto, sarei decisamente preoccupato. Anche in caso fosse lui il premier “tecnico” designato: anzi, in questo caso ancora di più. Gli agnelli sacrificali, se sono autorevoli, confondono meglio le idee dell’opinione pubblica: ok, ora potete tranquillamente evocare il 1992. L’attesa e la cautela sono finite.