UniCredit ai minimi da due anni, ormai ben sotto la soglia psicologica dei 5 euro; le Generali quasi ai minimi da 52 settimane, sotto i 16 euro. Entrambi i titoli sono stati colpiti ieri da due report negativi: JPMorgan per la banca (ieri in caduta del 4%), Deutsche Bank per il Leone (-1,89%). Trieste ha sofferto sul mercato anche un’ulteriore impennata dei suoi credit default swap, indicatore di solidità finanziaria (gli analisti di SocGen si sono affannati a suggerire la vendita di Cds Generali e il riacquisto di equivalenti dei comparable europei Zurich e Allianz).
Le due blue chip finanziarie italiane, è vero, hanno patito un’altra giornata molto negativa per tutte le piazze europee spaventate da tutte le incertezze globali (Cina e Medio Oriente); e il segmento bancassicurativo del listino non appare certo fra i più promettente nel 2016 dopo un buon 2015 spinto dall’espansionismo monetario della Bce. Tuttavia Generali e UniCredit rappresentano da tempo due casi peculiari in Piazza Affari: tanto da scongelare, nel market talk, anche vecchie ipotesi di avvicinamento strategico fra i due gruppi, tuttora collegati attraverso Mediobanca. Se le Generali sembrano aver beneficiato poco – certamente sul piano del profilo strategico – del passaggio (apparente) al modello della public company manageriale, UniCredit sta facendo i conti con una sua specifica crisi di governance e di strategia.
Della compagnia abbiamo scritto estesamente tre giorni fa a valle di una plateale “mosconata” del Financial Times riguardo un’offerta da parte del gruppo Zurich al Ceo Mario Greco. Il presidente del Leone, Gabriele Galateri di Genola, starebbe peraltro già preparando una controfferta, con un sostanziale ritocco del compenso. Anche ieri sui mercati non è mancato chi ha attribuito la debolezza del titolo all’ipotesi di uscita di Greco, ma sono continuate anche congetture sul bilancio 2015 delle Generali e valutazioni articolate sull’effettiva performance manageriale di quello che FT ha definito “top business talent“.
UniCredit, invece era ancora sopra 5,5 euro lo scorso 11 novembre, quando il Ceo Federico Ghizzoni ha annunciato il nuovo masterplan, imperniato essenzialmente sul taglio di 18mila posti di lavoro nel gruppo e sulla cessione di alcune attività (controllate in Ucraina e Austria, asset management, ecc.). Da subito il mercato non ha apprezzato lo scarso profilo dei percorsi e degli obiettivi delineati. Per di più nei giorni precedenti il gruppo era stato investito da un’ondata di sfiducia reputazionale dopo che alcune intercettazioni giudiziarie (legate a un’inchiesta sul vicepresidente Fabrizio Palenzona) avevano rivelato al mercato inquietanti dinamiche di governance, soprattutto nella gestione dei crediti. Il cda presieduto da Giuseppe Vita ha riconfermato la fiducia in Palenzona e Ghizzoni, ma ha dovuto approvare in fretta nuovi standard di separazione fra board e management; e in ogni caso un sindaco, il veronese Giovan Battista Alberti, ha rassegnato polemiche dimissioni per lo svolgimento e l’esito dell’azione del consiglio durante il “caso Palenzona”.
Il caso ha comunque prodotto anche un assestamento nel management di prima linea di UniCredit, ma attraverso annunci contraddittori. come quello riguardante l’uscita dal numero due di Ghizzoni, Paolo Fiorentini, poi rientrata. E mentre dal trentesimo piano dell’UniCredit Tower è stato allontanato Roberto Mercuri (controverso assistente personale di Palenzona), nel nuovo organigramma varato dal Ceo a fine novembre non compaiono più due manager toccati dalle rivelazioni: Massimiliano Fossati (rischi) e Adriano Cataldo (crediti). I due erano entrati in carica appena quattro mesi prima: il primo aveva sostituito Alessandro Decio, che ha nel frattempo lasciato UniCredit, rimanendo tuttavia nel consiglio di Mediobanca. Lo scorso luglio si era dimesso anche il direttore generale Roberto Nicastro, veterano della stanza dei bottoni del gruppo, già richiamato in servizio dalla Banca d’Italia come presidente unico delle quattro new banks nate dopo le risoluzioni di Etruria, Marche, CariFe e CariChieti.
È indubbio che dietro il forte malessere di Borsa di UniCredit ci sia anche questo. E che qualcosa – al di là degli aspetti strettamente strategici e gestionali – si fosse rotto era chiaro già in primavera: quando la Fondazione CariVerona, azionista-pivot di UniCredit fin dalla nascita e oggi tuttora forte del 3,45% – si era ritirata dal board in occasione del rinnovo triennale. CariVerona – cui l’autoriforma delle fondazioni impone ora di cedere una parte del suo pacchetto UniCredit – ha già più volte contestato a presidente e Ceo lo scivolone del titolo in Borsa, apprentemente inarrestabile.