Da una decina di giorni i mercati finanziari hanno dato segnali che non si vedevano da molto tempo. Il mini crollo dei mercati di inizio mese ha spazzato via in pochi giorni strumenti che da anni davano soddisfazioni scommettendo sulla bassa volatilità. Cosa sia successo o meglio cosa abbia provocato la frattura degli ultimi giorni non è un mistero particolare. Il rialzo dei tassi americani e, soprattutto, le prospettive di ulteriori incrementi da parte della Federal Reserve toccano al cuore non solo i rally degli ultimi anni, ma la loro causa ultima e cioè l’intervento delle banche centrali che dal 2008 schiacciavano i rendimenti dei bond statali; la bolla sui debiti sovrani si propagava andando a toccare sia le obbligazioni societarie che le azioni.
I mercati per anni hanno vissuto in uno scenario di crescita economica anemica, bassa o nulla inflazione e tassi bassissimi. Le banche centrali hanno risposto alla crisi Lehman iniettando sui mercati liquidità senza precedenti; per evitare brusche ricadute hanno mantenuto queste politiche per un periodo molto lungo di tempo e molto oltre la fase più acuta della crisi. Questo scenario alimentava i mercati azionari su cui si trovava sempre una ragione per comprare e scommettere al rialzo; da un lato le banche centrali erano sempre presenti offrendo una gigantesca rete di sicurezza, dall’altro si incentivava la propensione a rischiare dati i bassissimi rendimenti dei prodotti a basso rischio. L’economia globale oggi cresce senza sacche di crisi, la fiducia americana, dopo l’annuncio dei tagli fiscali, è ai massimi. Già a dicembre le pressioni inflazionistiche in America e più in generale nel mondo segnalavano un rialzo. Niente di preoccupante, ma il momento della normalizzazione delle politiche monetarie non è più rinviabile.
I mercati, gli investitori stanno prendendo confidenza con questa “novità”, con il rialzo dei tassi e la normalizzazione delle politiche monetarie. Esattamente come l’esperimento post-Lehman è stato senza precedenti, così oggi è senza precedenti il tentativo di uscire da dieci anni di politiche ultra espansive. Tutti gli indicatori e le dichiarazioni che vengono dalle banche centrali, a partire dal neo presidente della Fed, lasciano intendere che la ritirata sarà graduale e molto cauta; nessuno vuole rischiare di “rompere” i mercati finanziari con effetti sull’economia reale che, a questo punto, sono chiari a tutti. È chiaro però che il percorso di uscita e l’adeguamento degli investitori al nuovo scenario difficilmente avverrà senza qualche “incidente” di percorso come successo appunto dieci giorni fa. Abbandonare abitudini e schemi mentali consolidati da quasi dieci anni non è immediato per nessuno e non è immediato adeguarsi a mercati cambiati in alcune caratteristiche fondamentali. Vale per gli investitori, per le imprese che per anni hanno avuto finanza a costi schiacciati, in molti casi immeritatamente, e per banche e assicurazioni.
Il ritiro della liquidità ha colpito, come da copione, le bolle più estreme, quelle che si erano innestate sull’euforia delle azioni, e, nell’ordine, delle obbligazioni. La prima a sgonfiarsi è stata quella dei bitcoin a dicembre/gennaio; settimana scorsa è stato il turno di quella della bassa volatilità. Sono i cerchi più larghi dello schiacciamento dei rendimenti dei debiti sovrani con cui le banche centrali hanno risposto alla crisi. Il prossimo tema è come e quanto si riequilibreranno i mercati azionari che, sicuramente in America, viaggiano a multipli gonfiati da moltissimo tempo. Il mercato obbligazionario è su un “cerchio” più vicino al fenomeno iniziato dalle banche centrali nel 2008. Questa è, con ogni probabilità, la linea che verrà difesa dalle banche centrali se le politiche di normalizzazione dovessero causare troppi problemi e per cui, eventualmente, varrebbe la pena sacrificare anche le azioni.