Nell’autunno di otto anni fa dall’America partì una crisi finanziaria senza precedenti nel secondo dopoguerra. Oggi dagli Stati Uniti arriva una crisi politica che rischia di provocare sconquassi altrettanto gravi. Se martedì vincerà Donald Trump la crisi sarà più acuta, ma resta profonda e tutt’altro che risolta anche se vince Hillary Clinton. La crisi politica è figlia di quella economica? Solo in parte. Il distacco tra classi dirigenti ed elettorato si era manifestato già da tempo, così come la disarticolazione dei partiti-coalizione; lo stesso può dirsi per la delegittimazione delle istituzioni e la separazione culturale prima che economica tra “chi sa” e “chi non sa”, non solo tra “chi ha” e “chi non ha”, come si dice comunemente. Queste contraddizioni endogene erano state mascherate dalla vittoria sull’Unione sovietica e dal lungo ciclo di espansione globale, ma l’onda lunga della società post-industriale scavava come una talpa ed erodeva gli equilibri della fase storica precedente.
Trasformazioni profonde, che hanno una componente demografica, una dimensione sociale, una ricaduta politica e impongono una sorta di agenda comune. “Chiunque risulti eletto – ha scritto Luigi Zingales su Il Sole 24 Ore – attuerà una politica fiscale più espansiva, una politica estera isolazionista e avrà una maggiore riluttanza a firmare trattati di libero scambio”. Diciamo che Trump sarà più apertamente protezionista rispetto a Hillary e più rigido nei confronti degli immigrati, innalzerà un muro fisico, anziché simbolico; America first diventerà America alone, per lo meno finché non capiterà una nuova minaccia fondamentale alla sicurezza del Paese. E si può stare certi che prima o poi capiterà, perché il terrorismo islamico non è vinto, così come con sono risolte le profonde fratture che ne hanno favorito l’espansione (a cominciare dal caos assoluto in cui è precipitato il Medio Oriente).
Le tre costanti politiche individuate da Zingales, quelle che l’economista chiama “la direzione di marcia del prossimo Presidente”, già di per sé sono destinate a gettare instabilità e incertezza nel mondo intero, a cominciare dall’Europa. Una politica fiscale più espansiva, in sostanza riduzioni delle imposte o aumenti delle spese in deficit, significa far aumentare il debito americano con un impatto significativo sul dollaro. Una svalutazione del biglietto verde significa una rivalutazione dell’euro e un colpo alle economie europee dove le esportazioni hanno un ruolo guida, come l’Italia. Se, per evitare un crollo del dollaro con fuga di capitali verso l’Asia, la prossima amministrazione spingesse la banca centrale ad aumentare i tassi in modo improvviso, come accadde nella prima metà degli anni ‘80, s’innescherebbe una concorrenza spietata sui mercati finanziari per attrarre i capitali fluttuanti, che andrebbe anch’essa a svantaggio dell’Europa la quale cresce poco e investe ancor meno. Il Vecchio continente ha bisogno, per riprendersi, di una lunga fase di stabilità e di un coordinamento delle politiche monetarie e fiscali tra area del dollaro e area dell’euro. Il neo-isolazionismo va in senso opposto.
L’impatto della nuova avversione al libero scambio rischia di essere ancor più penalizzante. Chi in America e in Europa vuole alzare le barriere compie una scolta suicida, chi sostiene che così si difendono posti di lavoro, settori economici e industrie essenziali per il benessere dei paesi e dei popoli, inganna gli elettori per cecità o per “volontà di potenza”. L’isolazionismo in politica economica ha sempre e soltanto provocato povertà, l’isolazionismo in politica estera ha sempre provocato guerre. Non si tratta di fare i catastrofisti, ma di mettere in guardia basandosi sulle lezioni del passato.
Quali prospettive avrebbe in questo nuovo mondo che assomiglia pericolosamente a quello degli anni ‘30 un Paese come l’Italia, piccolo, incastonato in un Mediterraneo in fiamme, che deve importare tutto, materie prime e capitali, ampiamente dipendente dalle esportazioni manifatturiere e che non è riuscito a dotarsi di servizi avanzati, né a produrre tecnologie competitive? Dovrebbero spiegarlo una volta per tutte le forze politiche che anche in Italia chiedono di chiudere i confini. La nostra stessa sovranità nazionale non è mai stata isolazionista, dal Risorgimento in poi, con l’eccezione dell’autarchia fascista finita in tragedia.
Per restare ai giorni nostri, c’è da chiedersi che cosa sarebbe accaduto all’Italia e alla Grecia durante la crisi dei debiti sovrani se l’amministrazione americana non avesse giocato tutta la sua influenza affinché si tenesse conto del ruolo geopolitico di questi due paesi, anche al di là delle difficoltà economiche che li avevano portati sull’orlo del precipizio.
Il cupo scenario suggerito da Zingales non è scontato. Se è vero che queste sono le tendenze di fondo, è anche vero che continuano a esistere interessi nazionali che vanno in senso opposto e che nessun presidente può contrastare oltre un certo limite. Il protezionismo non può arrivare fino al punto da colpire i grandi colossi multinazionali americani installati in ogni parte del globo. L’isolazionismo nazionalista non può cancellare l’influenza culturale, politica, comportamentale acquisita in questi decenni.
C’è un presidente masochista al punto da cancellare i social media, Apple, Disney, la Coca Cola, insomma le icone di quel che è stato chiamato soft power? E uno così folle da lasciare che il fondamentalismo islamico metta e ferro e fuoco i pozzi del Golfo Persico? Davvero un Trump alla Casa Bianca lascerà che Putin si prenda l’Ucraina e i paesi baltici? O che la Cina diventi la potenza egemone del Pacifico? Crediamo di no. Ma non sappiamo fino a che punto si potrà spingere prima di innestare la retromarcia.