Le sorti di Atene sono insondabili e l’accordo raggiunto tra i partiti maggiori potrebbe semplicemente procrastinare il momento in cui sprofonderà definitivamente nel baratro; un piano lacrime e sangue, l’ennesimo, dove in cambio del licenziamento di 15mila statali, del taglio del 22% sui salari e dello stop agli aumenti di stipendio si otterrà, in sostanza, una semplice proroga. Il Paese, sempre che la Troika composta da Ue, Fmi e Bce darà l’ok finale, avrà tempo sino al 2015 – un anno in più rispetto al previsto – per generare nei suoi conti un avanzo primario da 4,5 miliardi di euro. Se il terzetto riterrà il programma sufficiente, sarà inoltre sbloccato il piano di aiuti da 130 miliardi di euro. Un piano, il cui scopo, non sarebbe quello di impedire il default. «La Grecia è già in default. Si tratta di capire se sarà un default ordinato o meno. Ovvero, non si sta discutendo del fatto che potrebbe fallire oppure no, ma delle modalità con cui questo avverrà», afferma, raggiunto da ilSussidiario.net Emilio Colombo, docente di Economia internazionale alla Bicocca di Milano. «Che il Paese, già adesso, non sia più solvente lo dimostra l’offerta fatta agli investitori di restituire loro solamente il 50% del valore di titoli che hanno in mano».
Perché uno dovrebbe accettare, su base volontaria? «Perché, altrimenti, l’alternativa sarebbe un crac disordinato, come quello argentino. Al che, gli investitori si troverebbero con in mano un pugno di mosche. Meglio, ovviamente, incassare la metà dei propri crediti che non incassarne affatto». In ogni caso, il raggiungimento dell’accordo tra i partiti, per la Grecia, non cambia un granché. «Non è detto, infatti, che tale intesa sia sostenibile nel lungo periodo né che le impedisca di uscire dell’euro, opzione che rimane pur sempre sul tavolo. Anche se, effettivamente, le converrebbe ben poco, dal momento che non ha un settore manifatturiero forte che potrebbe beneficiare di un ritorno alla dracma. Né alcuno ha dimostrato come, uscire dalla divisa unica, comporti vantaggi superiori agli svantaggi». In ogni caso, qualcosa di positivo, in tutto questo, c’è: «I problemi del debito di un singolo Paese riguardano tutta l’Europa che, sinora, si è dimostrata incapace di gestirli. L’esito dell’accordo e il modo con il quale sarà recepito dall’Europa potrebbero rappresentare i primi segnali del fatto che incomincia ad essere in grado di dirimere questioni a livello comunitario». Piccoli segnali, certo che, in ogni caso, non rappresentano certo la panacea di tutti i mali. «Resta il fatto che non è detto che le criticità della Grecia saranno risolte; l’accordo, tra qualche mese, potrebbe essere rivisto. Anche perché si stanno facendo i conti sulla base di previsioni di un andamento dell’economia che, in futuro, potrebbe cambiare. È possibile, inoltre, che la crisi si accentui, come è accaduto in questi anni e che, quindi, si renderà necessaria l’ennesima manovra aggiuntiva». Resta da capire entro quale limite si potrà tirare la corda. «La Grecia è un caso ben diverso dall’Italia. Non tanto perché ha una situazione peggiore. Ma perché vi si è trovata, per così dire, con dolo. Ha truccato, infatti, i conti. Ricordiamolo. Nonostante questo non si può chiedere a un Paese democratico un aggiustamento così brusco e ingente in così poco tempo».
Dopo un po’, infatti, la gente non ne può più. «E quando dal punto di vista sociale la situazione diventa ingestibile, la popolazione si ribella. E’ necessario che il problema del debito, in Europa, sia risolto in maniera cooperativa, affinché l’aggiustamento richiesto dai Paesi più in difficoltà, sia sostenibile. Se così non fosse, tutti i Paesi membri avrebbero qualcosa da perdere».