Per Matteo Renzi il momento della verità si avvicina. Comunque vadano, le elezioni amministrative di giugno segneranno uno spartiacque nella sua carriera politica ben prima del referendum costituzionale dell’autunno, cui il premier ha legato la sua permanenza in politica. Il voto locale potrebbe segnare il suo definitivo decollo, ma anche l’inizio del suo declino.
Il perché è presto detto: arrivato a Palazzo Chigi grazie a una congiura di Palazzo (inteso come via di Sant’Andrea della Valle, sede del Pd, e non come Montecitorio), Renzi ha fondato la propria legittimazione sul roboante 40,8% delle europee del 2014. Da allora moltissima acqua è passata sotto i ponti della politica, e quel risultato appare sempre più sfocato. Le formazioni politiche uscite dal voto del febbraio 2013 si sono tutte sfarinate (Pdl e Scelta Civica non esistono più, ad esempio), ed anche il PD, il più solido, ha cambiato profondamente faccia, e quel 40,8% non basta più.
Il vento per Renzi non è più favorevole come al tempo delle europee, così il voto di giugno si presenta denso di incognite. Pesano le divisioni interne al suo partito, e il patatrac della giunta Marino a Roma. Pesano, e tanto, le primarie farlocche andate in scena a Napoli, e date per buone. Un filotto di sconfitte sull’asse Napoli-Roma-Milano sarebbe un colpo che lo spedirebbe al tappeto. E non si tratta di uno scenario irrealistico. A Roma tutti i sondaggi continuano a dare in vantaggio la grillina Raggi. A Napoli la spaccatura nel Pd rischia di favorire il bis di de Magistris, mentre a Milano di fronte a Mr. Expo, Beppe Sala, sta l’unica coalizione di centrodestra compatta, dietro a un altro manager di vaglia come Stefano Parisi.
Portando a casa almeno due vittorie su tre grandi sfide, Renzi prenderebbe lo slancio giusto per asfaltare le resistenze interne e vincere in carrozza il referendum confermativo della riforma costituzionale. A quel punto la sua legittimazione sarebbe piena, e il premier-segretario potrebbe valutare in assoluta libertà se gli convenga di più anticipare le elezioni politiche alla primavera del prossimo anno, oppure attendere la scadenza naturale della legislatura, all’inizio del 2018.
Infinitamente più complicato si fa lo scenario in caso di una triplice sconfitta nelle maggiori sfide di giugno. Per Renzi la strada si farebbe in salita perché si troverebbe a fronteggiare il ritorno di fiamma della sinistra interna, che certamente gli chiederebbe a gran voce l’anticipo del congresso previsto per il 2017. E probabilmente a guidare gli oppositori sarebbe non l’evanescente Roberto Speranza, ma il ben più tosto Enrico Letta, che sta lanciando da qualche settimana evidenti segnali di volontà di rivalsa. Per ora Letta attende sulla riva del fiume (la Senna nel suo caso), ma la sua attesa potrebbe diventare molto operosa, in caso di un fiasco dei candidati renziani nella corsa per i sindaci.
Di certo il braccio di ferro con la sinistra interna si vedrà nel referendum costituzionale, anche se un’indicazione di voto per il no potrebbe costare cara a chi l’abbracciasse, discostandosi dalla linea ufficiale del partito. Le prove generali si sono viste in occasione della scelta dell’astensione sul referendum sulle trivelle del 17 aprile, calata dall’alto, senza alcuna discussione negli organismi interni al Pd.
Sulla strada di Renzi da qui all’autunno non mancheranno altre insidie, in larga parte provenienti dall’estero. Fronte caldo rimane l’Europa, per almeno due ragioni. La prima è costituita dalle perduranti perplessità europee sulla solidità dei conti pubblici italiani e sulla reale consistenza dell’ultima manovra di bilancio. Sin qui i richiami sono stati schivati, anche perché ci sono grandi Stati messi peggio di noi. Ma non si può ancora escludere del tutto una richiesta di misure aggiuntive. Gioca però a favore di Renzi il fatto che le istituzioni europee conosceranno un rallentamento della loro incisività in vista del referendum inglese di giugno sulla permanenza di Londra nell’Unione.
Nessun allentamento della presa ci sarà, invece, sulla questione della gestione dei migranti, che in Europa continuano ad arrivare. Qui Renzi rischia molto, perché la chiusura della rotta balcanica non può che sospingere il flusso verso l’Italia, specie con la bella stagione e il Mediterraneo più calmo. Non sarà facile ottenere una collaborazione vera, e non di facciata, dai partner europei. E questo potrebbe voler dire perdere qualcosa in termini di consenso.
Strettamente connesso con la questione profughi è la lotta al terrorismo e all’Isis, con la possibilità di azioni militari in Libia, Siria e Iraq. Ma qui è l’intera comunità internazionale, e non solo l’Europa, a giocarsi insieme la credibilità e la sicurezza.
Renzi dovrà muoversi con cautela, per non rischiare di alimentare la paura. Finirebbe per fare il gioco di una destra mai così divisa e mai così debole, ma dove Salvini andrebbe tenuto d’occhio, sia per il suo ripetuto strizzare l’occhio ai 5 Stelle, sia per il suo tentativo di uscire dall’isolamento in campo internazionale: non solo Putin, non solo Le Pen, il viaggio che sta per intraprendere in Israele indica la ricerca di interlocutori seri per costruire qualcosa di alternativo. Qualcosa ben lontano dal nascere, ma che Palazzo Chigi monitora con attenzione.