Se qualcuno avesse avuto ancora dubbi sul grado di serietà e maturità della democrazia statunitense, penso che questa campagna elettorale li abbia spazzati via definitivamente. Domenica, poi, la farsa finale: a una settimana dalla riapertura dell’inchiesta sulle mail di Hillary Clinton da parte dell’Fbi, scelta che aveva scatenato il complottismo di democratici e sostenitori (anche italiani) dell’ex capo del Dipartimento di Stato per il timing dell’operazione, ecco che i federali fanno sapere che non vi è nulla di penalmente rilevante e che quindi non incrimineranno la Clinton. A due giorni dal voto. Se come il nostro presidente del Consiglio continuate a ritenere gli Usa un modello cui fare riferimento, ricordatevi che House of Cards formalmente dovrebbe essere solo una serie tv, non la vita reale.
Detto questo, i mercati hanno subito reagito bene alla notizia dando vita a quello che in gergo viene chiamato clima di ritrovata propensione al rischio dopo un evento traumatico: ormai siamo al parossismo delle frasi fatte. La schiarita anti-Trump sul fronte politico Usa alla vigilia dell’Election Day di oggi ha premiato anche l’euro, il quale ieri mattina viaggiava saldamente oltre 1,10 dollari. Insomma, anche Borse e valute sono certe: la Clinton è il bene e Trump il male. Siamo così sicuri che sia davvero il prossimo inquilino della Casa Bianca il problema? Cosa guida i mercati a livello globale?
«È una storia a due facce: da un lato le evoluzioni politiche del dollaro e dall’altro quelle della sterlina – ha commentato Jane Foley, analista di Rabobank -. Se rimane ancora la speranza che la Gran Bretagna possa abbandonare l’Unione europea senza troppi traumi la sterlina dovrebbe recuperare nuovamente terreno. Al momento però l’elemento dominante sono le elezioni Usa». Per Luke Hickmore, Senior Fixed Income Fund Manager di Aberdeen AM, «i mercati finanziari resteranno febbrili durante queste ultime ore di campagna elettorale. Gli investitori pensavano in massima parte che avrebbe vinto Hillary prima che la scorsa settimana l’Fbi annunciasse che stava esaminando le nuove email. Con questo tema ora sul piatto è probabile i mercati finanziari si concentreranno di più sulla vittoria di Hillary». E ancora: «Nessuno dovrebbe però trarre la conclusione che questa campagna elettorale sia finita o che Hillary stia per vincere. I mercati finanziari si stanno lentamente muovendo verso Clinton principalmente a causa dei sondaggi e abbiamo visto dal referendum del Regno Unito sulla Brexit quanto questi possano commettere errori. Il ricordo di quel referendum dovrebbe profilarsi minaccioso tra gli investitori dato che allora tanti sondaggi erano sbagliati», ha messo in guardia l’esperto.
Oggi e domani potremmo osservare i mercati finanziari cominciare a esaminare minuziosamente le elezioni, soprattutto la formazione della Camera dei Rappresentanti sarà cruciale per entrambi i candidati: «Abbiamo visto quanto il parlamento Usa abbia ostacolato la politica di Obama. Entrambi i candidati potrebbero trovarsi ad affrontare le stesse difficoltà. Tuttavia la volatilità non scomparirà. Una volta concluse le elezioni americane, gli investitori cominceranno a preoccuparsi del meeting Opec alla fine del mese, del referendum costituzionale italiano ai primi di dicembre e del meeting della Fed il mese prossimo. Per non parlare di cosa fare mentre ci avviciniamo rapidamente alla fine del Qe», ha concluso Hickmore.
Una delle cose che i mercati temono di più – e che per gli analisti di Morgan Stanley è un’ipotesi da prendere in seria considerazione – è infatti un governo degli Usa diviso dopo il voto: «Questo limiterebbe notevolmente la possibilità di intraprendere azioni di politica economica decise dal punto di vista fiscale e degli investimenti infrastrutturali». E ancora: «Qualunque sia il risultato delle elezioni, l’attenzione dovrebbe essere rivolta alla composizione del nuovo Congresso: l’impatto economico delle elezioni dipenderà sostanzialmente da quale partito ne avrà il controllo».
Un’altra cosa pare certa e cioè che con l’elezione di Trump è probabile un aumento della volatilità sui mercati azionari e obbligazionari, non fosse solo che a causa della maggiore incertezza riguardo alla direzione del Paese e al nuovo governo. Ovviamente la politica di Trump – apparentemente e a parole isolazionista su immigrazione, commercio transoceanico e alleanze militari – ovviamente aumenta le incertezze, ma tocca restare focalizzati sulla vera mossa catalizzatrice a breve termine, ovvero la decisione della Fed riguardo ai tassi di interesse nel meeting del board di dicembre. Non a caso i grandi fondi di investimento stanno preparando i loro clienti a un evento stile Brexit, basando le loro mosse principalmente sulla diversificazione degli investimenti e la ricerca di beni rifugio con rendimenti soddisfacenti, che permettano cioè di ammortizzare un ipotetico calo dei prezzi degli assets a seguito di uno shock sui mercati: dopo il voto inglese, i titoli di Stato con un discreto cuscinetto di rendimento, come quelli inglesi, canadesi o Usa, si sono infatti comportati meglio di quelli che hanno registrato rendimenti negativi come i tedeschi.
Ora, al netto di tutto questo, resta però una grande questione insondata e nascosta: occorre dire chiaramente che la scelta del prossimo presidente Usa è ovviamente di enorme importanza globale, ma la realtà ci dice che chi guida il Paese è la Fed, non la politica. Così come sanno anche i sassi che quanto accadrà in Europa nel prossimo futuro passa unicamente dal board della Bce del prossimo 8 dicembre, non dal referendum costituzionale italiano del 4 o neppure dal voto tedesco o francese del 2017. Pensateci: chi ha tenuto in piedi l’eurozona finora? Soltanto Mario Draghi, i vari governi hanno dovuto legare – chi più, chi meno – le proprie azioni politiche e fiscali agli schemi fissi dell’Ue e questo ha portato a un’inazione totale che ha subito un offset fondamentale dalle scelte di allentamento quantitativo di Francoforte. Senza la monetizzazione del debito, l’eurozona non esisterebbe già più.
Quindi, rendiamoci conto del fatto che se anche vincesse Hillary Clinton, tranquillizzando il mondo rispetto alla variante impazzita del tycoon newyorchese, la sua politica economica non sarebbe dettata da scelte autonome, ma da due fatti specifici, i quali sarebbero esattamente gli stessi anche in caso di vittoria di Donald Trump: ineluttabilità di un ingresso in recessione degli Usa entro al più tardi l’autunno dell’anno prossimo (ma io penso prima) e il fatto che sarà ancora una volta la Fed a fornire le armi per combattere il rischio stagnazione per l’economia.
Certo, Casa Bianca e Congresso possono votare leggi in tal senso, stanziare aiuti pubblici, decidere per manovre d’emergenza e irrituali, ma chi pensate che avanzerà le richieste alla politica, di fatto tramutando quelle scelte in altrettante pistole alla tempia e agitando lo spettro dei mercati in turbolenza? E questa non è una prerogativa solo degli Usa: pensate che un governo diverso da quello di Shinzo Abe potrebbe andare allo scontro con la Bank of Japan sulle scelte di politica monetaria e fiscale? Pensate che Theresa May possa controbattere o, peggio, limitare l’azione di Mark Carney? E, somma di tutte le sudditanze, pensate che l’Ue o un qualche suo Stato membro possa mettersi di traverso alle scelte della Bce? Ci sta provando la potente Germania attraverso la Bundesbank ormai da mesi, ma Mario Draghi ha sempre e comunque imposto le sue ricette, giuste o sbagliate che possano essere.
Ormai sono economia e finanza a dettare tempi e modi dell’agire politico, non è più il contrario. Sapete quando è stata l’ultima volta che la politica ha imposto le sue leggi all’economia? Quando era presidente Bill Clinton, il quale per perseguire il suo progetto di casa di proprietà per tutti come collante per la comunità e agente responsabilizzante per le minoranze obbligò le banche commerciali a garantire mutui a chiunque, senza badare al rating di credito, pena la perdite di filiali, sportelli e bancomat. Sapete cosa è nato da quella scelta? Il disastro dei subprime e il 2008, Lehman Brothers in testa. Il mondo ormai è troppo econo-dipendente e finanziariamente interconnesso per permettere alla politica – spesso incapace e propagandista come quella di Bill Clinton – libertà di azione su certi temi: l’abbiamo voluto noi, siamo noi che abbiamo concesso sempre maggiori cessioni di sovranità a entità non elette e sovranazionali che hanno, ontologicamente, come referente la finanza e i poteri (o potentati) economici, ora non ci è concesso lamentarci.
Quindi, non toglietevi il sonno stanotte per sapere prima di tutti chi andrà alla Casa Bianca: tolta la reazione a caldo sul breve termine, non cambierà nulla. Il mondo lo governano le Banche centrali e quelle d’affari. E a saperlo bene è proprio Hillary Clinton, visto che è sostenuta in massa da Wall Street e ha tenuto decine di discorsi presso potenti banche d’affari e fondi d’investimento: la potenziale first lady sa benissimo che il suo datore di lavoro non è il popolo americano, ma la finanza. In questo, almeno apparentemente, Donald Trump appare differente, visto che quel mondo lo detesta e lui detesta quel mondo, dopo averci fatto affari per trent’anni: state certi che se mai arrivasse a prendere la residenza in Pennsylvania Avenue per i prossimi quattro anni, il suo disprezzo per l’establishment verrebbe mitigato in tempi brevi. Se non altro, dalla recessione in arrivo. Era la politica bellezza, ora è solo business.