Per Carlo Azeglio Ciampi — scomparso ieri a 95 anni — la concertazione era un metodo civile, uno stile di vita: non solo l’etichetta politico-economica della sua stagione di governo in Italia. Il patto dell’estate 1993 (Ciampi era divenuto da poco premier tecnico, nelle settimane più tempestose di Mani pulite) fu l’estremo tentativo della prima repubblica di concretizzare la Costituzione: i suoi principi di sovranità e di soluzione dei conflitti, ispirati in modo concertato al razionalismo laico (Ciampi aveva militato nel Partito d’azione), al solidarismo cristiano, alla cultura politico-sindacale della sinistra marxista.
La “politica dei redditi” sottoscritta a Palazzo Chigi fra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil fu probabilmente utile a “garantire” — verbo ciampiano per eccellenza — la lunga rincorsa dell’Italia verso l’euro: ma era intrinsecamente “novecentesca”. Fu nei fatti subito superata dalla vittoria di Silvio Berlusconi nel ’94: Ciampi rimase sulla scena come ministro del Tesoro di Romano Prodi e poi come presidente della Repubblica, ma la sua Italia restò irrealizzata esattamente come quella di Berlusconi è rimasta incompiuta. Ma qui sta l’essenza del “ciampismo” che attende di essere studiato e che oggi, certamente, va rispettato. E che è stato protagonista in molti passaggi della storia repubblicana recente: destinati in queste ore alla glorificazione o alla detrazione in via pregiudiziale.
La successione traumatica al governatore Paolo Baffi in Bankitalia, nel 1980, fu la prima prova per il quieto laureato in lettere alla Normale di Pisa, salito senza strappi alla direzione generale. Diversamente dal suo predecessore, Ciampi fu sì preso in mezzo dall’eterno confronto fra finanza laica e cattolica, ma non ne fu travolto: la sua protezione per il salvataggio dell’Ambrosiano (durata per due decenni, nonostante le pressioni di Mediobanca) e la risistemazione “nopartisan” della proprietà del Corriere della Sera furono un modello di concertazione in campo finanziario, anche se inevitabilmente conservatore. A Ciampi si deve — fra l’altro — la nascita di un subsistema fra i più importanti e controversi dell’Italia contemporanea: le Fondazioni, la cui legge porta non a caso il suo nome.
La difesa della lira, nell’autunno del ’92, fu simbolica: secondo alcuni di un donchisciottismo ingiusticabile, anche nello sfascio della prima repubblica; secondo altri testimonianza di patriottismo civile come politica alta. Un “amor di patria” rapidamente replicato su scala europea: è stato Ciampi, senza dubbio, a prendere più di altri la “decisione collettiva” di far partecipare l’Italia all’euro. In nome di questo sogno definitivo di un’Italia “concertata” nell’Europa compiuta, Ciampi ha messo il suo volto di garante sulla grande stagione delle privatizzazioni italiane, operativamente condotta da Mario Draghi (forse il più illustre dei “ciampiani”). Una stagione oggi sotto processo: anzi, non ancora sotto processo politico-culturale per rispetto (per gran parte dovuto) alla figura di Ciampi.
Ciampi diventa presidente della Repubblica nel 1999, pochi mesi dopo l’avvio dell’Unione monetaria. Lascia il Quirinale nel 2006 quando già la turbofinanza globalizzata si prepara a sconvolgere qualsiasi possibilità di “concertazione” nel mondo. Ha torto chi dice che la crisi italiana (europea) ha Ciampi fra i responsabili (colpevoli): lui certamente non ha voluto quest’Italia e questa Europa. Ha sognato un’Italia e un’Europa illuminate da quello che un italiano nato nel 1920 continuava a immaginare come “il meglio” contro “il peggio” di quello che aveva visto e vissuto nel ventesimo secolo. Si può registrare che anche lui — non solo lui — non ha saputo prevedere fino in fondo i possibili esiti dei percorsi politico-economici intrapresi in nome di un sogno, alla fine sopraffatto dalla realtà come tutti i sogni. Ma non si può accusare l’italianissimo Ciampi di non aver fatto sempre in buona fede quello che riteneva bene per il suo Paese.