Tre mesi fa la direzione del Pdl consegnava alle telecamere la lite in diretta fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. A conclusione di questo trimestre dal (se non storico) memorabile evento un bilancio s’impone, alla luce dei fatti accaduti.
Ricordo, quel 22 aprile, un Aldo Brancher che, quando ancora la direzione non era conclusa, si precipitava fuori per rassicurare un interlocutore al telefono (che io immagino potesse essere Roberto Calderoli, o comunque qualcuno in grado di riferire a Umberto Bossi) leggendogli i passaggi salienti del documento che vietava la costituzione di correnti organizzate interne e di fatto bollava come “eresia” l’iniziativa finiana, documento poi passato a larghissima maggioranza.
Ma il bilancio, da allora, langue. Tre dimissioni, una al mese, e tutte nelle fila dei berlusconiani, volte a scongiurare altrettante preannunciate mozioni di sfiducia, e soprattutto a prevenire un’operazione di auto-difesa in Parlamento che si preannunciava a dir poco problematica, tanto per Scajola, quanto per Brancher e Cosentino, con il rischio ulteriore di vedere i finiani ingrossare in modo decisivo le fila degli sfiducianti.
Nel frattempo, nella pars costruens, solo ora Berlusconi si dichiara in grado di sopperire alla mancanza di un ministro dello Sviluppo, promesso a Napolitano nel giro di “poche settimane” diventate nel frattempo mesi, tanto da suscitare un’esplicita sollecitazione in tal senso, originata da un’irritazione che già ufficiosamente trapelava da tempo dal Quirinale. E non senza motivazioni, visto il superlavoro che c’è, o meglio ci sarebbe, da fare nel tamponare la crisi, per il dossier sul nucleare, e nel fronteggiare i propositi migratori della Fiat. Staremo a vedere, comunque.
Se però Brancher con quella telefonata voleva rassicurare la Lega sul fatto che Fini era fuori gioco, i fatti sono andati, sin qui, in senso contrario, e per sostenerlo non c’è neanche bisogno di ironizzare sul fatto che, nel frattempo, fuori gioco ci è finito lo stesso Brancher. Fini, infatti, continua a rubare la scena come e più di prima, e visto lo stato comatoso dell’opposizione tende a recitare quel ruolo lui, facendo sponda (con qualche successo) con il Quirinale.
Ma allora, a parte l’idea (che a me parve sciagurata) di inserire in quel documento approvato dalla direzione del Pdl il 22 aprile, altisonanti argomenti vetero-maoisti-rivisitati del tipo “servire il popolo” per quella che dopo tutto era solo una resa di conti dentro un partito, la domanda sorge spontanea: non era meglio esercitarsi su come sancire la pace interna, o almeno una robusta tregua costruttiva, invece di cercare pomposi argomenti per arroccarsi in difesa del leader?
Siamo infatti nel bel mezzo di quella che poteva e doveva (alla luce della larghissima maggioranza) essere una legislatura costituente, produttiva di riforme vere e incisive, ma finora è chiaro che tutto è stata tranne che questo. Berlusconi si lamenta degli scarsi poteri che si ritrova, ma allora fra gli amici più stretti del premier qualcuno dovrebbe sentire il bisogno di ricordargli che le riforme (vere) si possono fare solo nei seguenti quattro modi.
Il primo: per via rivoluzionaria, magari in modo soft, schierando ad esempio i Promotori della Libertà capeggiati dal ministro Brambilla, davanti al Parlamento inoperoso, al Quirinale riottoso, nonché al Csm e alla Consulta, che remano contro.
Non si può fare? Voi dite? Allora di ipotesi ne restano solo tre.
La prima: puntare – Costituzione alla mano – a una maggioranza di due terzi in Parlamento, coinvolgendo anche l’opposizione, almeno nelle sue componenti più aperte o meno prevenute. Sì da evitare il successivo referendum di conferma della modifica costituzionale. Neanche questo si può fare, visto il condizionamento di Di Pietro sul Pd? Voi dite?
Allora di ipotesi ne restano solo due. La prima: andare ad approvare le riforme con una maggioranza semplice del 50 più uno in Parlamento, ben sapendo però che poi bisogna, in tal caso, andare al vaglio popolare con un referendum confermativo, che già riservò (va ricordato) per la scorsa riforma federale una sonora batosta, per il centrodestra.
Se Berlusconi è davvero convinto di avere dalla sua il consenso del 60% degli italiani dovrebbe metterci la faccia e gettarsi a capofitto in questa strada. Ma la pre-condizione non può che essere un ricompattamento del Pdl (con la Lega) su questa ipotesi di lavoro, altro che andare a scomunicare componenti interne.
Se invece, al di là delle dichiarazioni sui consensi crescenti del governo, il referendum confermativo continua a far paura, di strada ne resta una sola, e minimale. Agire a costituzione costante, modificando quel che si può in Parlamento, con legge ordinaria. Ma se l’unica strada resta questa (per timore degli effettivi consensi conteggiabili poi in un referendum) allora bisogna che qualche amico spieghi a Berlusconi (o potrebbe capirlo da solo visto che è troppo definirsi “in-politico” a 17 anni dalla discesa in campo) che c’è da fare i conti con questa Costituzione, oltre che col Capo dello Stato così come lo regola questa Costituzione stessa, con questo Parlamento, con questo Csm, e altrettanto con la Corte costituzionale così com’è concepita ora.
Le intercettazioni così come sono state riscritte sono, con il loro minimalismo, figlie di questa impostazione. Ma allora non serve lamentarsi del loro contenuto, come fa Berlusconi, se di più questo governo, con il fido suo ministro Alfano, non è in grado di strappare non tanto alla finiana presidente della Commissione Giustizia Giulia Bongiorno, quanto alle prerogative degli organi che vigilano sul rispetto di una Costituzione che questo governo non si mostra in grado di modificare.
A poco serve, insomma, aizzare i retroscenisti su quello che questo governo vorrebbe fare, se poi sulla scena vera non c’è la forza, la tenacia e la capacità di mettere insieme i pezzi per cambiare le cose. Chi vuole cambiarle davvero, si adoperi allora per una pace che sia la più ampia e allargata possibile, invece di compiacere il capo nel suo fortino, dove si fanno congetture ma non si decide un bel nulla. Non da soli, almeno. Ci provano i soli Gianni Letta e Gianni Alemanno, ma le loro restano, autorevoli, voci solitarie.
Non va bene neanche così? Allora non resta che tornare all’ipotesi uno, i Promotori schierati all’assalto dei Palazzi del potere. E non è detto che di questo passo non ci si arrivi per davvero.