Il 18 maggio, le autorità europee esprimeranno un giudizio sul programma di politica economica dell’Italia quale espresso nel Documento di economia e finanza e negli scambi epistolari che si sono a esso succeduti. Quello appena trascorso è stato un fine settimana di intensi negoziati. Al momento in cui scriviamo sembra che la trattativa sia a favore dell’Italia in materia di indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni dove riportiamo un avanzo primario (a ragione non solo del contenimento delle spese in alcuni settori – pubblico impiego, sanità, investimenti pubblici), ma anche e soprattutto a causa dell’aumento di tasse e imposte locali, nonché di tariffe pubbliche.
La parte più difficile è il debito pubblico. Ci rallegriamo perché si è sostanzialmente stabilizzato attorno al 132% del Pil e perché negli scenari a corredo del Def nel 2019, si porrebbe tra il 126% e il 124% del Pil a seconda dell’andamento effettivo della crescita economica. Dimentichiamo che proprio venerdì 13 maggio, i dati Istat sull’andamento del Pil, e soprattutto su quello dei prezzi, dipingono un’Italia che si sta avvitando in una pericolosa deflazione. Con il Fiscal compact ci siamo, poi, impegnati non destabilizzare il rapporto debito/Pil ma a ridurlo di un ventesimo l’anno sino a quando non raggiungerà il 60% del Pil. Obiettivo quanto mai distante.
Sosteniamo (si veda l’articolo di Marco Fortis su Il Sole 24 Ore del 13 febbraio) che la ricchezza delle famiglie italiane “sostiene” ampiamente il debito. Tuttavia, nelle classifiche del Global Wealth Report del Credit Suisse (la fonte citata più frequentemente e facilmente disponibile on line) siamo passati dal 2013 al 2015 dal terzo al settimo posto e le previsioni sono per un ulteriore calo e ampliamento, invece, tra “chi ha” e “chi non ha”. Non solo è diminuito il reddito disponibile complessivo delle famiglie, ma parte dei ceti a reddito medio-basso stanno scendendo alla soglia di povertà. La diminuzione dell’aspettativa alla nascita registrata di recente è, secondo le analisi dei medici ospedalieri, una delle conseguenze del forte aumento dei ticket per la diagnostica.
Occorre distinguere tra “reddito” – un concetto di flusso: quanto si ottiene nel corso di un periodo – e “ricchezza” – un concetto di stock: quanto le generazioni attuali e le precedenti hanno accumulato. Indubbiamente, grazie al duro lavoro e la parsimonia di generazioni, le famiglie italiane dispongono di un forte “stock” di ricchezza per lo più immobiliare o in titoli di Stato. Il fenomeno della ricchezza immobiliare è aumentato a ragione del decremento delle nascite: molte famiglie mononucleari hanno ereditato tre-quattro appartamenti e residenze secondarie da genitori, nonni e zie. Ciò comporta, però, difficili problemi di stima statistica del loro valore (anche perché non si tratta di ricchezza liquida) e poco si sa di come tale “ricchezza immobiliare” sia stata stimata dal Crédit Suisse. La “ricchezza” in titoli di Stato dipende dal fatto che sino alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, il mercato dei capitali italiani era sostanzialmente “chiuso” e l’alfabetizzazione finanziaria delle famiglie modesta; quindi, c’erano poche opportunità di diversificazione degli investimenti.
La propensione al risparmio in generale degli italiani sta diminuendo è passata dal 10% del reddito disponibile delle famiglie nel 2009 all’8% circa nel 2015. Ciò indica che a fronte della crisi , molte famiglie stanno diminuendo l’accumulazione di “ricchezza”. O la stanno intaccando. È importante tenere in mente questi dati perché gran parte dei programmi di riduzione del debito pubblico delineati in questi anni fanno leva sull’utilizzazione della “ricchezza” delle famiglie. E non tengono conto del fatto che lo stock di debito è, di per se stesso, un vincolo alla crescita di valore aggiunto e, quindi, di reddito disponibile, di risparmio e di accumulazione (o disaccumulazione ) di ricchezza.
Le analisi più recenti affermano che, data la nostra struttura economica e demografica, se il debito pubblico supera l’85%-90% del Pil, il macigno agisce come un freno di almeno l’1% l’anno sulla crescita. Il tasso di crescita “potenziale” del Paese è stimato attorno all’1,5 % l’anno: ci si condanna alla stagnazione, qualsiasi altra misura si applichi in materia di mercato del lavoro, liberalizzazioni, privatizzazioni ha poco effetto. Ridurre gradualmente il fardello con un avanzo primario (entrate superiori alle spese pubbliche al netto del servizio del debito) tale da portarlo al 60% del Pil (nei tempi previsti dal “patto euro-plus” e dall’accordo sull’unione fiscale) implica una manovra di 35-50 miliardi di euro l’anno per i prossimi 20 anni – ossia condannare almeno una generazione alla recessione.
Quella dell’Italia pare una malattia congenita che ha le sue radici in determinanti storico-sociologiche di lungo periodo: in 150 anni di Unità, per ben 111 anni lo stock di debito pubblico ha superato il 60% del Pil e per oltre 50 il 100% del Pil. Al fine di ridurre il debito, il primo punto (in ordine di tempo) della strategia di crescita presentato dal Governo Monti, e ripreso dal Governo Letta, è il fondo immobiliare che ha presto acquisito, sulla stampa d’informazione, il nomignolo di “fondo taglia-debito”. In breve, l’obiettivo è “creare ricchezza” dalla manomorta pubblica (stimata a 1815 miliardi, pari quasi allo stock di debito pubblico). In pratica, la cessione di una parte (peraltro relativamente modesta) del patrimonio immobiliare pubblico (che oggi rende poco o nulla allo Stato e alle pubbliche amministrazioni in generale) e diritti per le emissioni inquinanti di CO2. Dalla prima fonte si contano di ricavare 35-40 miliardi; dalla seconda altri 10.
In primo luogo, è pleonastico dire che cercare di valorizzare il patrimonio pubblico è una buona idea. Ci sono ora pure le premesse perché l’idea abbia questa volta modalità di applicazione che la rendano realizzabile entro un lasso di tempo relativamente breve. Lo schema messo a punto da Andrea Monorchio e Guido Salerno Aletta, che è anche corredato da una bozza di proposta di legge d’iniziativa popolare, fa leva non sul patrimonio pubblico, ma su quello dell’edilizia privata. In breve, i proprietari di casa verrebbero messi di fronte a un’alternativa: o essere soggetti d’imposta patrimoniale oppure far sì che un decimo del loro patrimonio edilizio (stimato in 9.000 miliardi di euro) venga ipotecato dallo Stato avendo in cambio: a) la garanzia dell’esenzione da imposte presenti e future; b) un interesse al tasso di sconto presso la Bce e un ammortamento ventennale. In tal modo – tralascio gli aspetti tecnici, alcuni dei quali molto ingegnosi – lo Stato avrebbe la liquidità per abbattere il debito pubblico e realizzare politiche di crescita.
Un’alternativa del programma, prevede obbligazioni a cedola zero (garantite dall’ipoteca sul 10% del valore dell’immobile) che potrebbero essere particolarmente interessanti per chi vuole costituire un capitale per un lascito a figli o congiunti o amici. Sono ambiziose, in vario modo, anche le proposte di La Malfa e Savona (chiare alternative a un’imposta patrimoniale). Vale, però, la pena integrarle con la proposta del Governo e con gli schemi Monorchio-Salerno e La Malfa-Savona – la proposta di Giuseppe Guarino, invece, è essenzialmente una patrimoniale più o meno in maschera al fine di costituire un “fondo taglia-debito”.
Credo occorra partire dalla premesse che se si chiede ai privati di utilizzare parte dei gioielli di famiglia (la propria casa) per liberare l’Italia dalla morsa del debito (Monorchio-Salerno Aletta) si debba chiedere allo Stato di fare altrettanto. Destinare a tale fine una parte del patrimonio immobiliare pubblico (è difficile che il mercato ne possa assorbire di più) e delle licenze per CO2 è limitativo. Anche perché tale patrimonio immobiliare pubblico (ad esempio, la case popolari Ater) non sono certo gioielli di famiglia. Soprattutto, dato come non possiamo utilizzare le strade maestre per ridurre il debito pubblico – consolidamento, maxi-inflazione, super-crescita – occorre guardare a esperienze innovative di riscatto quali quelle attuate da alcuni Paesi dell’America Latina e dalla Germania. In America Latina non si trattava di risolvere il nodo del debito pubblico interno (abbastanza contenuto a differenza di quello sull’estero), ma di affrontare il peso di un insostenibile debito previdenziale. In Germania, il problema era come coniugare denazionalizzazioni con la riduzione del debito dei Länder orientali. In tutti questi casi, per il riscatto sono stati istituiti fondi specifici quali il Treuhandanstalt (THA) tedesco e si è utilizzato parte dello stock di ricchezza pubblica e privata.
In Italia sono stati fatti tentativi in parte in tal senso, quali quelli di un migliore valorizzazione del patrimonio pubblico, e hanno dato risultati modesti poiché troppo timidi. Le proposte di Giuseppe Guarino, Giorgio La Malfa, Andrea Monorchio, Paolo Savona, Guido Salerno e altri sono un segnale importante: persone di culture differenti stanno metabolizzando l’idea del riscatto, nonostante non abbiamo dimestichezza con le esperienze dell’America Latina e della Germania. Numerose proposte guardano solo o principalmente alla ricchezza immobiliare privata (l’Italia ha la più alta percentuale al mondo – l’80% – di residenti che abitano in case di loro proprietà). Ciò sarebbe un’imposta patrimoniale in maschera (e verrebbe letta dai mercati come l’anticamera della bancarotta).
Un fondo per il riscatto del debito pubblico dovrebbe basarsi su tre pilastri (il suo “sottostante” nel lessico finanziario): a) parte del patrimonio immobiliare pubblico; b) parte del patrimonio immobiliare privato su base volontaria e in cambio di un’esenzione permanente da eventuali imposte patrimoniali; c) parte dei veri di gioielli di famiglia (Enel, Eni, Finmeccanica, Poste Italiane, Sace, Terna, Sogin, Inail). Rai, Ferrovie, Anas, Fincantieri e altre imprese da denazionalizzare non verrebbero, in una prima fase, incluse poiché sono fardelli da rimettere in sesto o da liquidare. Con un tale “sottostante” in garanzia, il fondo potrebbe emettere titoli a lungo termine e a tassi allineati su quelli di riferimento della Bce per riscattare il debito pubblico e , in via subordinata, finanziare investimenti a lungo termine di interesse collettivo attualmente accantonati a ragione delle ristrettezze di bilancio. Il fondo sarebbe un veicolo per denazionalizzare/privatizzare le società /gli enti le cui azioni sarebbero il suo “sottostante”.
Perché l’operazione funzioni il “sottostante” dovrebbe essere aggregato (con una cartolarizzazione) e non dovrebbe essere quotato in Borsa per un certo numero di anni (al fine di costituire una garanzia solida). Potrebbe essere collocato presso fondi pensione per dare corpo a un’efficace ed efficiente previdenza integrativa. Ciò richiederebbe una preventiva riduzione del loro numero da 700 ad una decina con effettiva portabilità (ossia che gli iscritti possano votare con le gambe e migrare verso quelli meglio gestiti). Un passo che va comunque fatto se non si vuole che la previdenza integrativa resti una chimera.
Vale la pena ricordare che le varie proposte per ridurre il debito sono state confrontate in un seminario Cnel di circa due anni e mezzo fa e che la Fondazione Astrid ha elaborato un documento complessivo per il Governo Letta. Non ricordo proposte specifiche del Governo in carica, tranne l’asserzione che la ricchezza delle famiglie e la crescita ci tireranno fuori dalla trappola. Invece, a farci uscire dalla gabbia saranno il Fondo monetario internazionale e la Grecia. Il Fondo detesta le insolvenze, come documentato da un lavoro del servizio studi dell’istituzione. Il succo dell’analisi è che le ristrutturazioni del debito sono un male infinitamente minore delle insolvenze, in quanto queste ultime si ripetono a catena e contagiano il resto del mondo. Per questa ragione, preme per una ristrutturazione del debito greco.
Nelle nostre preghiere ricordiamoci del Fondo monetario internazionale.