“Non me ne vado, sono un fisico e domani debbo laborare”. “Ti sto dicendo che devi fare causa alla compagnia”. “No, non me ne vado”. “Allora dobbiamo trascinarlo via!” “Potete anche trascinarmi ma non me ne vado, resto qui… stanno cercando di usare la forza!”. “Se opporrà resistenza sarà ancora più difficile!”. “Va bene, preferisco andare in prigione”. Poi solo grida, strilli e il video ignobile – che ha fatto il giro del web – di un signore cinese di mezz’età, sdraiato per terra sulla schiena nello stretto cirrodio di un aereo, trascinato fuori per le braccia come un sacco di patate, con gli occhiali di sghimbescio, da due energumeni.
È la vicenda vergognosa che ha finalmente indignato perfino il torpido apparato sociale americano, quella del passeggero che ha scoperto di essere stato preso in “overbooking”, cioè in sovraccarico consapevole, su un volo della United Airlines perché gli inservienti della compagnia, dovendo far posto a un altro passeggero con più titoli di lui – chissà perché – prima gli hanno chiesto con le buone di andarsene, offrendogli 1.000 dollari di indennizzo, e ai suoi rifiuti lo hanno portato via come un delinquente. La stolida America, perfino lei, si è indignata e il titolo United ha perso il 20% a Wall Street costringendo il capo-azienda a porgere al malcapitato le solite ipocrite accuse di rito.
Questo è il vero volto del mercato dell’aerotrasporto oggi nel mondo. Intanto, a Roma, si esercitano i fighetti e pagano il conto gli arabi beoti e lo Stato, fesso e contento: e qui stiamo parlando, manco a dirlo, dell’Alitalia. Che nesso c’è tra lo scandalo United e la crisi ennesima dell’Alitalia? Nessi diretti, nessuno: indiretti, mille. L’aerotrasporto è quella feroce giungla concorrenziale dove per non lasciarsi sfuggire neanche un dollaro di ricavi potenziali le compagnie arrivano a commettere simili scempi. E in questa giungla cosa fanno i piloti e in generale il personale Alitalia, compagnia aerea decotta e in condizioni prefallimentari, nonostante due tentativi di salvataggio e oltre 4 miliardi già buttati nel cestino dallo Stato per impedirle di fallire? Chiedono, chiedono, chiedono. E ottengono, ottengono, ottengono.
Riepiloghiamo i termini del preaccordo che adesso andrà sottoposto al referendum aziendale. Gli esuberi previsti per il personale a tempo indeterminato scendono da 1.338 a 980, grazie essenzialmente alla Cassa integrazione di due anni e ad altri mezzucci. La riduzione della retribuzione del personale navigante è prevista all’8%. I tagli al personale navigante scendono da 369 milioni a 258 in 5 anni. Gli scatti d’anzianità triennali restano, col primo nel 2020 (almeno!). E i riposi annuali si riducono da 120 a 10.
Nell’insieme, l’organico resta un privilegiato rispetto alle condizioni d’inquadramento retrbutivo e normativo del personale di Ryanair ed EasyJet. Non che siano cattivi: non c’entra. Sono inconsapevoli dei rischi che corrono: o forse hanno ragione, visto che c’è sempre qualcuno che “li salva”.
Fin qui c’è da sbalordirsi per l’arrendevolezza dei soci privati, prima ancora che dello Stato, ma tant’è. Solo che a fronte di questo pian(in)o di ristrutturazione, che come ha già ben scritto sul Sussidiario Ugo Arrigo difficilmente basterà a raddrizzare conti e sorti della compagnia, le banche rifinanziano il buco e… lo Stato, lo Stato italiano, cioè noi, per l’ennesima colta corre in soccorso dello sperpero, garantendo tramite Invitalia che se nel 2018 le cose non miglioreranno i prestiti comunque saranno rimborsati.
Perché Invitalia è stata costretta dal governo a fare una cosa simile? Come potrà credibilmente continuare il suo lavoro – fin qui ben svolto – di “attrarre investimenti” stranieri se contemporaneamente dimostrerà di essere un estintore di dissenso in mano alla politica? Facile la replica: comunque lo Stato subirebbe molti danni da un fallimento Alitalia. Un miliardo, secondo la stima del ministro Calenda. Meglio prevenirli che subirli, questi danni da crac, senza neanche averci provato. Vero, giusto: se fosse la prima volta. È invece l’ennesima. E non è neanche quella veramente severa. Allora la spiegazione è forse un’altra: Renzi, il burattinaio del governo Gentiloni, non vuole risse nel suo locale prima del voto alle primarie e alle amministrative. E impone scelte sbagliate. Le si metta nel conto.