La divisione italiana della Fondazione per la ricerca sui Laogai (www.laogai.it – Laogai Research Foundation) insieme al Mup, Movimento universitari padani, ha organizzato venerdì 12 Febbraio un incontro con il fondatore della Fondazione Harry Wu per denunciare la realtà dei campi di lavoro forzato in Cina, dove vengono tutt’ora internati milioni di oppositori alla dittatura comunista.
Harry Wu è un testimone diretto di questa realtà concentrazionaria cinese per aver subito sulla propria pelle per anni tali torture. In seguito riuscì a emigrare negli Stati Uniti, dove risiede attualmente, e a fondare la Laogai Foundation che denuncia in tutto il mondo questa spaventosa realtà.
Signor Wu cosa significa esattamente la parola Laogai e da quanto tempo esistono in Cina questi luoghi?
Il termine Laogai è in realtà una sigla “Laodong Gaizao Dui” e significa letteralmente “riforma attraverso il lavoro”. I Laogai sono stati introdotti immediatamente dopo la presa del potere di Mao Zedonge l’instaurazione della dittatura comunista in Cina nel 1949, con l’aiuto dei sovietici che insegnarono alle guardie rosse come strutturarli. Esistono dunque da sessant’anni e in questo arco di tempo abbiamo calcolato che circa cinquanta milioni di persone sono passate attraverso questa tremenda realtà concentrazionaria. Oggi sono rinchiusi e costretti ai lavori forzati circa tre milioni e mezzo di persone.
Ma cosa avviene esattamente in un Laogai? In cosa consiste questa prigionia?
I Laogai sono un formidabile strumento del governo cinese per ottenere manodopera a costo zero. Chi entra in una di queste 1.045 strutture sparse su tutto il territorio cinese è completamente uno schiavo del Partito Comunista, costretto a lavorare per sedici ore al giorno in miniere, fattorie o fabbriche. Questi detenuti sono sottoposti a torture, malnutriti e costretti a dormire in baracche con condizioni igieniche inesistenti. Così il governo cinese riesce a raggiungere l’obiettivo di reprimere e internare qualsiasi dissidente senza nemmeno un finto processo. Persone che dichiarano il proprio credo religioso o cercano di praticarlo pubblicamente, persone che si battono per la libertà o semplicemente esprimono delle critiche pubbliche al governo vengono incarcerate assieme a comuni delinquenti, ai quali comunque non andrebbe riservato un trattamento così crudele. Una caratteristica centrale del sistema Laogai è il sistematico lavaggio del cervello del detenuto. L’indottrinamento politico si effettua con “sessioni di studio” giornaliere che hanno luogo dopo le lunghe e dure ore di lavoro forzato. Poi si utilizza l’autocritica, che avviene davanti ai sorveglianti e agli altri detenuti ed è finalizzata a “riformare” la personalità di chi si auto-accusa. Innanzitutto si devono elencare e analizzare le proprie colpe, anche se inesistenti. Successivamente ci si deve accusare pubblicamente di averle commesse, procedendo alla riforma della propria personalità, per diventare una “nuova personalità socialista”.
Signor Wu, lei è stato imprigionato e costretto ai lavori forzati per diciannove anni. Di che colpa si era macchiato?
Sì è vero, ho passato momenti atroci in quel periodo. Quando fui arrestato era il 1960 e avevo 23 anni. Ricordo benissimo che ero a disagio nel clima di polizia in cui si viveva e tutt’oggi si vive in Cina. Non si potevano esprimere opinioni, tutti venivano continuamente spiati. Mi considero un patriota e all’epoca sostenevo sinceramente anche la figura di Mao Zedong. Ero un ragazzo di vent’anni e sicuramente non ero politicizzato. I miei problemi iniziarono nel 1956. A quell’epoca ero iscritto alla facoltà di geologia all’università di Pechino. Quando iniziarono le sollevazioni del popolo ungherese contro i sovietici, espressi semplicemente l’opinione che a mio giudizio le armate sovietiche avevano utilizzato dei metodi sbagliati per sopprimere i moti della popolazione ungherese. Ma fu la mia protesta contro la distinzione in uso tra “compagni”, in senso di appartenenti al partito, e “colleghi di classe”, che per il proprio credo o opinioni venivano discriminati, a provocare l’arresto. Io sono cattolico e mio padre prima della rivoluzione era banchiere. Quando venni allo scoperto fui immediatamente mandato in un Laogai. Durante quegli anni venni trasferito per ben tre volte da una miniera di carbone ad altre fabbriche. È stato un periodo difficilissimo della mia vita, talvolta ho pensato al suicidio, ma è stato soprattutto il desiderio di rivedere mia madre a salvarmi.
Poi cosa successe?
Grazie a Dio, dopo il mio rilascio nel 1979, riuscii a immigrare negli Usa nel 1985. Dapprima non volevo rivelare la mia terribile esperienza a nessuno. Lavoravo sodo nei negozi per la vendita di ciambelle e mi ero ripromesso di non parlare mai più della Cina. Poi ripresi coraggio, tornai a studiare all’università di Berkeley in California e decisi di denunciare apertamente i crimini cinesi. Il mondo doveva sapere esattamente cosa avveniva nei Laogai. Così fui ricevuto dal Senato degli Stati Uniti per testimoniare sulla mia vicenda personale. Nel 1992 fondai a Washington la Laogai Research Foundation con la quale mi batto per far conoscere in tutto il mondo cosa siano i Laogai e aiutare i dissidenti cinesi, cosicché un giorno la dittatura di Pechino possa essere spezzata. Solo nel 1993 la parola GuLag (i campi di lavoro forzato sovietici) è uscita alla ribalta internazionale grazie all’infaticabile lavoro di Solženicyn. Nel 2003, con la nostra fondazione siamo riusciti a far introdurre il termine Laogai nel vocabolario di Oxford. Purtroppo la realtà dei Laogai perdurerà ancora per molto tempo in Cina, siamo solo agli inizi del nostro lavoro di denuncia.
Come giudica l’operato delle Nazioni Unite per difendere i diritti umani in Cina?
Per dieci anni, dal 1990 al 2000 mi sono recato a Ginevra per denunciare la politica del figlio unico imposta dal governo cinese come strumento di controllo demografico. Scegliere liberamente quanti figli avere è un diritto fondamentale, ma le Nazioni Unite con la conferenza sulla donna a Pechino hanno scelto a maggioranza di sostenere le politiche del governo cinese. È stata una decisione tragica con la quale in Cina vengono perseguitate e costrette all’aborto migliaia di donne. Cito il caso di Chen Guang Chen, attivista per i diritti umani, tuttora in prigione per essersi battuto contro la campagna di aborti forzati imposta dal regime cinese nella provincia dello Shandong. Secondo il settimanale Times (Times 9.12.05 ndr) solo in una parte di questa provincia almeno 7.000 giovani donne sono state costrette ad abortire dal marzo al luglio del 2005. Alcuni episodi sono agghiaccianti, come il caso di una giovane di 23 anni, Li Juan, alla quale gli operatori sanitari hanno infilato un ago nell’addome fino a raggiungere il feto di nove mesi che si è dapprima mosso scalciando e poi si è fermato. Almeno 130.000 aborti forzati hanno luogo in Cina ogni anno secondo il Parlamento Britannico, che nel 2007 ha presentato una mozione in cui si chiede al Governo di cessare l’erogazione dei contributi del Regno Unito in favore dell’UNFPA, il Fondo per la popolazione delle Nazioni Unite, che sostiene economicamente la politica di “pianificazione familiare” del regime cinese. È triste constatare che a causa di questa agenzia Onu, la condizione della donna in Cina è diversa e peggiore di quella delle donne di tutto il mondo. Oltre a non difendere l’elementare diritto alla vita, le Nazioni Unite fanno molto poco per spingere il governo cinese verso la libertà di culto e di educazione in Cina. Basti pensare che ogni tipo di educazione non statale è bandita.
Sono in molti a pensare che l’apertura del mercato cinese al resto del mondo e il conseguente sviluppo economico e tecnologico che questo ha comportato spinga verso una progressiva democratizzazione del governo cinese.
Innanzitutto c’è una distinzione fondamentale tra libertà e democrazia. È importante lavorare sulle libertà inalienabili dell’uomo, quei diritti fondamentali che oggi il governo cinese calpesta. Anche il Partito Comunista parla di democrazia, ma la libertà in Cina è inesistente.
In secondo luogo i fatti confermano il contrario. Il Partito Comunista attraverso i suoi funzionari controlla e guadagna su tutte le attività di mercato presenti sul territorio cinese. In questi anni sono aumentate la repressione, gli abusi, i morti e gli arresti. Le cifre ufficiali parlano di 58.000 rivolte popolari nel 2003, di 74.000 nel 2004 e 87.000 nel 2005. Non si tratta di ricchi studenti che giocano alla rivoluzione, ma di veri e propri affamati. Io ho una posizione diversa, di fronte a questa brutale negazione dei diritti umani si deve avere il coraggio d’imporre sanzioni economiche contro la Cina o questi crimini contro l’umanità continueranno a essere commessi.