«Concepiamo il bene comune come l’aggregazione “matematica” di tanti interessi individuali fatti coincidere con regole uguali per tutti. Ma questo fa saltare tutto». E ancora: «come imprenditore più mi accorgo di essere al centro, più mi sento alla mercé di avvenimenti e cose verso le quali non posso nulla». A dirlo è Marco Boglione, fondatore e presidente di BasicNet Spa, gruppo leader mondiale nel settore dell’abbigliamento sportivo che sviluppa il valore di marchi come Kappa, Robe di Kappa, Jesus Jeans, Lanzera, K-Way e Superga e ne diffonde i prodotti. Boglione ha le idee chiare: lo si potrà leggere nel suo dialogo con Carlo De Matteo contenuto nel libro, di prossima uscita, Contro l’azienda etica. Per il bene comune, autore lo stesso De Matteo. Oggi la rete di BasicNet coinvolge circa 150 imprenditori e più di 15mila persone nel mondo. Dopo Sapelli, Pelanda, Corbetta, Riotta e Quadrio Curzio, è un imprenditore a misurarsi con la lezione di Julián Carrón all’Assemblea generale della Cdo del novembre scorso.
Da figli del nostro tempo, vediamo nell’altro qualcuno che minaccia il raggiungimento della nostra felicità. Cosa ne pensa?
È vero. Lo si vede dal modo di concepire il bene comune. Esso viene visto oggi più come una conseguenza che non come una causa del bene di ognuno. In altri termini: concepiamo il bene comune come l’aggregazione “matematica” di tanti interessi individuali fatti coincidere con regole uguali per tutti. Ma questo fa saltare tutto per aria. Per un qualche strano motivo, anziché diventare più consapevoli che il nostro bene personale è la miglior conseguenza del bene di tutti, perché è provato dai fatti, stiamo esasperando il nostro bene singolo.
Provato dai fatti, dice? Ne è sicuro?
Ma certo. Pensi a cosa sarebbe stato il nostro bene individuale se non ci fossero state grandi conquiste sotto il punto di vista del bene comune: il mercato, l’educazione e l’istruzione, per esempio. Invece ci siamo messi in testa che la somma di tanti io individualmente soddisfatti sia un bene per tutti. Ma è sbagliato. E non è una questione di buonismo: se c’è una persona, sul mio pianerottolo, con la quale litigo dalla mattina alla sera alla fine sto male anch’io. Posso aver ragione in linea di principio, ma non sono soddisfatto.
Il paradosso è che tentiamo di rimediare alle relazioni ostili con delle regole, ma senza riuscirvi. Non crede?
Sì, ma non è tanto questione di regole e basta, ma di regole buone. Io faccio sempre questo esempio: in rete si possono scrivere una marea di dabbenaggini, però questo non vincola i pc che continuano a scambiarsi le informazioni in modo omogeneo ed affidabile e quindi a costruire conoscenze. Il mio bene, come in questo caso, dipende dalla bontà di un minimo di regole condivise da tutti.
L’uomo – continua Carrón – da solo non è capace di reggere di fronte all’urto della crisi. L’unica chance di «sostenersi in una positività e in un ultimo ottimismo», e quindi di costruire, è quella di mettersi insieme ad altri. Che ne pensa?
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Vede, io ho un modo di vivere la mia vita personale e professionale in cui l’approccio, crisi o non crisi, non cambia. Ho le mie convinzioni e le sto portando avanti. Ho una vision nella quale calo la mia realtà personale e professionale, posso dire che stiamo costruendo la stessa azienda che abbiamo pensato vent’anni fa, quando ci siamo detti: proviamoci. È lo stesso impeto e la stessa logica. Non posso però nascondermi che siamo al tempo stesso soggetti a qualcosa che non dipende da noi in nulla, e che saremmo degli sciocchi se pensassimo ultimamente di poter cambiare.
A cosa si riferisce esattamente?
All’andamento dell’economia mondiale per esempio. In realtà non so risponderle con esattezza. Mi accorgo di essere al centro di due fenomeni contrastanti. Da imprenditore posso dire che più è reale la sensazione di essere perno di tutto quello che mi sta intorno, più mi sento imbarcato, alla mercé di avvenimenti e cose verso le quali non posso nulla.
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Secondo lei che cosa prevale nell’agire economico? Le regole individualistiche, oppure, come è stato notato sul sussidiario.net a proposito del nostro paese, l’esistenza di opere imprenditoriali che vanno al di là dell’interesse dei singoli?
Devono prevalere entrambi i punti di vista. Non si può pensare che il padrone dell’Ikea o il maggior azionista di Bombardier non abbia pensato di massimizzare il proprio interesse personale, cercando di fare l’azienda più grande del mondo con quel core business. Facendola non ha fatto però solo quello: gli effetti sono sempre molteplici. È vero che chi fa impresa in modo individualistico rimane una cicala. Ci sono le attitudini e le storie personali, chi per fare l’azienda piccola, chi l’azienda grande. Dopotutto fare impresa è frutto di libertà e ognuno vi mette quello che è. Ma ci vogliono buone leggi.
Lei insiste molto sul tema delle regole. Perché?
Senza buone regole, la libertà e la creatività imprenditoriale non creano più nessuna ricchezza ma precipitano nell’individualismo e nel sopruso. Penso che dobbiamo stare lontani da un sistema a paradigmi fissi, che non porta da nessuna parte. Le leggi sono fatte per aumentare la libertà, e non per restringerla. Vietare il trust, vietare la posizione dominante, è nell’interesse di tutti, anche di quelli che dominano. Se Ikea non avesse avuto concorrenti non avrebbe potuto diventare il primo, con benefici non solo per la proprietà, ma anche per gli azionisti, per i lavoratori e per che compra. Vede che una scelta apparente contro l’interesse personale alla fine riporta più di qualunque altra all’interesse personale.
BasicNet è leader di mercato. È merito suo?
Non può essere solo merito mio. BasicNet è un’azienda a rete che coinvolge un grande numero di figure professionali a livello mondiale, imprenditori di grande autodeterminazione, che agiscono con forte delega di visione e non solo dell’operato meccanico. Ho sempre lavorato per fare un’azienda in cui regole chiare e uguali per tutti favoriscono la libertà e la creatività.
Questo in pratica cos’ha voluto dire?
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I due fattori critici di successo che noi ci attribuiamo di più sono la creatività e il metodo, perché è solo dalla creatività, dentro un sistema che la consolida e la mette a sistema, che viene la competitività dell’impresa. se non è tutta l’impresa ad essere più brava più bella e più piacente, ti resta soltanto la tua “singola” prova di forza. Che può degenerare e ricorrere a tutti i mezzi disponibili per affermarsi.
Per ottenere un primato a qualsiasi costo, dunque?
Sì, ma a quale prezzo. È l’economia degli ultimi vent’anni, che si è sviluppata non in forza della creatività e della vera competitività, ma della massa critica finanziaria che veniva messa su certi comparti di attività. Si pompavano soldi e l’azienda cresceva del 30 per cento l’anno, ma con che idee? Con quale novità, e con quale “trasgressività”, vien da dire?
Molte inchieste raccontano di piccoli imprenditori in crisi non solo economica, ma di rappresentanza, di peso e di vision. Lei cosa vede? La solita Italia cui si rimprovera di non saper pensare in grande, oppure che ce la fa nonostante tutto?
Vedo un’Italia che si accorge tardivamente di avere un problema, che è la mancanza di un tessuto imprenditoriale autonomo, e di non riuscire a capirne le ragioni. Quello che lei ha detto del sentire dei piccoli imprenditori è verissimo. Il sistema paese, la politica, le istituzioni principali se ne sono altamente fregati di assecondare, rischiando, le esperienze imprenditoriali più solide, o anche solo i virgulti di impresa. Risultato: la grande impresa ha i piedi d’argilla, mentre il piccolo tessuto imprenditoriale nessuno lo ha “filato” per vent’anni, adesso di colpo ci si accorge che manca e si dà la colpa ai piccoli che restano nani.
Una diversa cultura del lavoro potrebbe aiutare?
Il sistema dovrebbe assecondare le persone che hanno la “deviazione genetica” ad essere imprenditori, ma lei sa benissimo che negli ultimi vent’anni questo non è accaduto. Se va a prendere le indagini sulle aspettative di lavoro di chi è sotto i diciotto anni l’imprenditore non esiste come figura professionale. Par di vedere ancora oggi la forte componente ideologica e intellettuale sul capitale e sull’imprenditore che c’era quando ho iniziato io, negli anni ’70: sempre meglio un professore, un attore o un regista, o un dipendente o un sindacalista di un imprenditore. Con la differenza che all’epoca c’era un sogno non ancora disilluso di cambiare le cose, e fare impresa era un modo per farlo, ora quel sogno è disilluso.
Ma il Pil non è tutto.
Già Kennedy diceva che il Pil non è tutto e forse aveva ragione, ma alla fine è quello che conta. E nel caso dell’Italia, dimenticarsi degli imprenditori è come essere l’impero romano e trattar male i soldati.
Cosa serve di più oggi? Più etica o più educazione?
Più educazione, non c’è dubbio.
(Federico Ferraù)