Cappellacci batte Soru 51 a 42: peggio di così per il Pd non poteva andare. Una sconfitta totale, che per un particolare scherzo del destino coincide anche con la vittoria alle primarie di Firenze di Matteo Renzi, osteggiato dal gruppo dirigente del partito.
Due sintomi evidenti di una crisi profonda da cui, secondo l’editorialista del Sole 24 Ore Stefano Folli, il partito deve uscire al più presto, se vuole avere un futuro.
Folli, gli errori della sinistra sono stati moltissimi: dovendo fare una sintesi, hanno pesato di più gli errori di Veltroni o quelli dei suoi avversari?
La sinistra è entrata in una crisi talmente grave che è difficile fare distinzioni di questo genere. Ci sono stati nell’ultimo periodo momenti diversi in cui si è manifestata sempre e comunque una profonda debolezza politica e un’incapacità di definire le caratteristiche politiche di questo centrosinistra. È dunque qualcosa che va al di là degli errori singoli. Si è creato un cortocircuito in cui l’unica cosa che conta è l’assoluta povertà della strategia e l’inconsistenza complessiva del gruppo dirigente. C’è naturalmente anche la debolezza dei competitori di Veltroni; ma è nel complesso il gruppo dirigente che a mio avviso viene definitivamente delegittimato.
E non è certo un caso la concomitanza con la vittoria, nelle primarie di Firenze, dell’“outsider” Matteo Renzi.
In effetti il dato della Sardegna va letto insieme a quello di Firenze, altrimenti non se ne capisce la portata. In Sardegna, infatti, ci sono anche fattori locali, legati pure alla figura di Soru. Ma a Firenze il gioco è stato tutto interno al partito: erano primarie, e quindi si trattava di testare il rapporto con la base. Ed è stato un disastro: il partito e il gruppo dirigente non hanno alcuna influenza sulla gente, e le realtà locali vanno avanti con logiche proprie. Non a caso questo Matteo Renzi è un personaggio trasversale: è cattolico, è legato a Rutelli (che adesso è il più critico verso il gruppo dirigente romano) e a Firenze è percepito come un personaggio che paradossalmente potrebbe essere candidato anche dall’altra parte. Il gruppo di dirigente ha perso i contatti con la realtà, ed è la caratteristica tipica dei momenti di crisi.
La vittoria di Renzi può rafforzare la posizione di Rutelli?
Secondo me è soprattutto una vittoria contro il gruppo dirigente, locale e nazionale. Che poi lui sia personalmente amico di Rutelli è un fatto, ma non è quello il punto essenziale. Rutelli potrà forse anche avvantaggiarsi di questo elemento; ma ciò che conta è capire il significato profondo di questo risultato.
E l’alternativa dell’ala dalemiana? Oggi D’Alema parla anche di un possibile ritorno all’alleanza con Rifondazione.
Il disegno veltroniano era quello di fare del Pd un partito “pigliatutto”, sul modello del partito laburista inglese, che occupa indistintamente la sinistra e il centro. Ed è un progetto fallito. La strategia di D’Alema è invece di impianto classico, e consiste nel riconoscere e nel tornare a dire “siamo una forza socialdemocratica”, e su questa base ricostruire un rapporto con l’ala sinistra, riconoscendola come parte radicale, ma facente parte dello stesso mondo. Va tutto bene, se non fosse che in questo momento bisogna far poggiare queste idee sulle gambe degli uomini, trovando l’uomo giusto. E anche sperare che non sia troppo tardi. Io invece ho la netta impressione che in questo momento il centrosinistra sia davvero a un punto molto basso.
È dunque perduta ogni speranza di recupero per il centrosinistra?
In politica nulla è per sempre, ma in questo momento Berlusconi è arrivato ad avere un consenso impressionante. Il voto sardo, anche come quantità, è una lezione. D’Alema e altri cercano di mettere in campo una strategia; però è una strategia che ha bisogno di molto, moltissimo tempo per essere costruita. E questo significa altri scossoni, altre lacerazioni. Non so quanto se lo possano permettere. Fermo restando che qualcosa devono fare, dato che questa idea in cui sono vissuti un anno, del partito che fa fuori Prodi perché troppo legato all’estrema sinistra e poi costruisce un’alternativa neo-laburista, è fallita.
Anche la vittoria del Pdl però lascia aperti degli interrogativi: dietro al successo numerico, non c’è il rischio di riproporre lo schema della perenne campagna elettorale?
Non c’è dubbio che questo sia il limite grave di Berlusconi: lui dà il meglio nelle campagne elettorali. Non a caso le ama in questo modo. Abbiamo avuto il caso abbastanza singolare di un presidente del Consiglio che in un momento di forte crisi economica passa grandi giornate in Sardegna a fare campagna per un’elezione minore. È una situazione curiosa. D’altra parte lui fa un ragionamento che ha una sua logica, seppure un po’ spregiudicata: finché riesco ad avere un rapporto diretto con l’opinione pubblica apro costantemente la crisi dei miei avversari, e quindi ottengo una investitura popolare che si rinnova. Questo non si concilia esattamente con l’idea di un governo che agisce e si applica a trovare la soluzione dei problemi, ed è il limite del Pdl, che rischia di essere una grande macchina elettorale, ma di non essere poi adeguato all’azione di governo.
Che conseguenze ha sul lungo termine questo atteggiamento?
Questo è un Paese che ha un enorme bisogno di riforme radicali: la maggioranza ha un consenso molto forte, e potrebbe farle. Invece siamo in una condizione in cui tutto sommato non vediamo le riforme procedere speditamente. Certo, si parla tanto di federalismo fiscale, ma è una cosa molto generica, perché poi non ci sono i fondi per realizzarlo. Sono progetti molto belli, ma lontani nel tempo. Le riforme essenziali che dovrebbero cambiare la vita degli italiani non vengono affrontate con la sollecitudine necessaria. Una vittoria come quella in Sardegna è importante, ma lascia insoddisfatta la domanda di governo che l’Italia ha. Ed è solo sulla risposta a questa domanda che si può costruire un vero, stabile e solido rapporto con gli italiani.