Tutti fermi in attesa che la propaganda lasci il posto alla concretezza. Sarà un fine settimana all’insegna delle feste di partito quello che attende la politica italiana: Festa democratica che chiude a Reggio Emilia con il discorso di Bersani. Festa dell’Udc a Chianciano con Casini che lancia la sua “Lista per l’Italia” in continuità con Monti. E infine quel che resta della Festa Tricolore tanto cara a Gianfranco Fini che lotta per la propria sopravvivenza politica.
All’appello manca solo Berlusconi, atteso venerdì prossimo a Roma da Giorgia Meloni dalla tradizionale Festa dei giovani, “Atreju”, che dovrebbe finalmente – dopo tanti tira e molla – dire una parola un po’ più chiara sulla sua reale intenzione di candidarsi per la sesta volta a Palazzo Chigi.
Al netto delle decisioni del cavaliere, e tranquillizzato sul versante economico dalle parole di Monti e dalle decisioni di Draghi, i partiti la prossima settimana sono attesi alla prova del fuoco della legge elettorale, quelle regole del gioco che mancano per capire come organizzarsi in vista di una sfida che è ormai chiaro si giocherà nei primissimi mesi del prossimo anno. Quelle regole del gioco che definiranno alleanze e coalizioni.
Le posizioni rimangono distanti, i nodi da sciogliere sempre gli stessi, la scelta fra preferenze e collegi e la destinazione di un più o meno consistente premi di maggioranza.
Una cosa è certa: dopo gli anatemi di Napolitano e i richiami di Monti i partiti farebbero una figuraccia nel lasciare tutto com’è. In più, votare con il “porcellum” avvantaggia una sola forza politica, il Pd, che si sente già primo partito e che – a differenza del Pdl – ha l’orizzonte di organizzare intorno a sé una coalizione, quantomeno con Sel, e forse anche con verdi e socialisti.
Secondo gli sherpa del Pdl al tavolo della trattativa è il Pd a essere meno disponibile al necessario compromesso, proprio perché tentato di lasciare le cose come stanno. I berlusconiani su questo tema sentono vicina la sensibilità dell’Udc e non lontana quella della Lega. Da qui la tentazione di andare in aula, dove – almeno al Senato – una maggioranza pro preferenze e pro un premio di maggioranza limitato al massimo al dieci per cento e assegnato al primo partito, non alla coalizione.
La risposta del Pd è che le preferenze potrebbero alimentare non solo il clientelismo, ma anche la corruzione, e non solamente nelle regioni meridionali. E, quanto al premio di maggioranza, questo dev’essere lo strumento che permette di formare un governo solido, e quindi non ha segno assegnarlo al partito più votato. Deve andare alla coalizione ed essere almeno del 15 per cento.
Difficile dire come finirà, ma il buonsenso vorrebbe un compromesso. Il più sensato vorrebbe una rinuncia alle preferenze da parte del Pdl, in cambio di una limitazione al primo partito ed al massimo al 10 per cento del premio di maggioranza, “aggiustando” in salsa italiana il sistema tedesco, che prevede per metà collegi uninominali e per metà liste di partito bloccate.
C’è uno schema che circola a Palazzo madama: prevede il 33 per cento di seggi ai vincitori dei collegi, il 33 per cento ai migliori perdenti, e il restante 33 per cento alle liste proporzionali, il tutto con basso premio di maggioranza e sbarramento al 4 o al 5 per cento.
Spenti i riflettori delle maggiori feste di partito forse l’intesa sarà più semplice, anche se forse a dire la parola che potrebbe sbloccare l’impasse potrebbe essere ancora una volta Silvio Berlusconi, quando avrà sciolto i suoi amletici dubbi sul futuro.
Quel che è certo è che si va verso un sistema in cui i giochi per il governo si faranno solo dopo il voto, con una grande discriminante: se l’alleanza Pd-Sel, allargata all’Udc avrà in entrambe le camere i voti per governare, oppure se saranno di nuovo necessari i voti berlusconiani. In quel caso le quotazioni di un Monti bis salirebbero vertiginosamente.