Coesione e competitività. Corrado Passera al Meeting di Rimini ha introdotto un nuovo binomio nel dibattito sull’uscita dalla crisi. Il ministro per lo Sviluppo economico ha ricordato che “la produttività è peggiore dello spread sui titoli pubblici” e ha rivolto un appello alle Parti sociali in vista della prossima stagione contrattuale. Ha fatto bene a riportare la discussione per così dire in fabbrica. L’emergenza sociale è balzata in primo piano insieme all’emergenza finanziaria. L’una e l’altra sono collegate. Ed entrambe dipendono non solo dalle manchevolezze dell’Europa, dalla malevolenza dei tedeschi o dai limiti dell’euro (che pure esistono), ma da una stagnazione ormai ventennale e da un declino tendenziale del nostro livello di innovazione e di progresso tecnico-economico.
I teorici dello sviluppo hanno costruito matrici per cercare di incasellare quel fenomeno così peculiare, instabile e problematico grazie al quale il genere umano ha spezzato la catena che per millenni l’ha inchiodato a un reddito pro capite medio annuo stimato dall’economista Angus Maddison in 500 dollari di oggi. Gli economisti anglo-americani hanno costruito la triade REI (Risorse, Efficienza, Innovazione); gli storici hanno aggiunto CIP (Cultura, Istituzioni, Politica). Pierluigi Ciocca, analizzando il caso italiano, ha ricondotto le onde di produttività che regolano la crescita a quattro “fasci di forze”: finanza pubblica, infrastrutture fisiche e giuridiche, concorrenza e dinamismo delle imprese. Dove si inseriscono coesione e competitività?
Intanto, va ricordato che non sono di per sé in sintonia. Il primo termine del binomio si può garantire con il debito pubblico: spendi e spandi per accontentare tutti, è quel che hanno fatto in Italia i governi (con scarse eccezioni e brevi intervalli) dalla fine degli anni ’70. Alla distribuzione della torta hanno contribuito in modo consistente anche le imprese private, che hanno trovato nei trasferimenti pubblici (tra incentivi e ammortizzatori sociali) il sostituto alla ricerca del profitto attraverso l’innovazione, compito loro e non dei governi in un’economia capitalistica con tutti i crismi. Alla fine, la coesione ha depresso la competitività come mostrano i dati pluridecennali dell’Istat e della Banca d’Italia.
Si può anche rinunciare al consenso sociale: è quel che ha fatto negli anni ’80 la signora Thatcher, una via rischiosa che in Italia nessun governo ha seguito, ma che non piace nemmeno agli imprenditori, con l’eccezione di Sergio Marchionne oggi e di Cesare Romiti nel 1980. Nel breve periodo può dare risultati: talvolta la terapia choc è salutare, o magari è l’unica possibile per evitare il collasso. Nel medio periodo, diventa un boomerang. Quindi, Passera ha ragione nel voler tenere insieme le due variabili del ritorno allo sviluppo. Ma, messo sui giusti binari il discorso sul metodo, è arrivato il momento di entrare nel merito.
I due cicli di maggiore crescita italiana, il periodo giolittiano e il miracolo degli anni ’50, sono stati accompagnati da finanze pubbliche in ordine, elevata innovazione industriale, salari e profitti crescenti, sostanziale piena occupazione. Gli altri cicli, quello di Crispi o quello inaugurato nel 1992 dal crollo della lira, hanno visto crescere disavanzo pubblico, deficit della bilancia con l’estero, disoccupazione, rendita immobiliare, mentre scendevano i salari, la produttività, gli utili dalla gestione industriale. Come innescare di nuovo il circolo virtuoso?
La competitività è e resta in prima istanza responsabilità delle imprese, sono loro che debbono impiegare al meglio i fattori della produzione. Il governo non è in grado di sostituirsi. Può e deve rendere le condizioni della produzione le più favorevoli possibili, per esempio togliendo gli ostacoli giuridici, istituzionali, ambientali; il governo deve fornire le infrastrutture fisiche e giuridiche idonee; sostenere le esportazioni con un’adeguata politica estera; può favorire la ricomposizione e il riaccorpamento di un tessuto produttivo che si è frantumato anche per sfuggire a lacci e lacciuoli, quelli legali, sindacali e fiscali. La legge Monti-Passera da questo punto di vista è un buon inizio. Insomma, si possono fare mille cose, tranne appiccicare l’insegna di nuova politica industriale alla vecchia strada dei favori e degli incentivi ai più forti. L’Italia ha sovvenzionato gli industriali e poi ha messo a carico dei contribuenti la de-industrializzazione. Ora basta, non solo perché non ci sono più risorse, ma perché è la ricetta sicura per uccidere il paziente.
E il consenso? Se significa ripresa delle pratiche neocorporative (la triangolazione confederazioni-governo-Confindustria), non solo è pericoloso perché porta con sé l’aumento della spesa pubblica, ma diventa improponibile nell’Unione europea. Un sindacato responsabile dovrebbe favorire l’aumento della competitività. Ma non i salvataggi a spese dei contribuenti. La proposta di Susanna Camusso, cioè far acquistare dallo Stato le aziende in crisi (via Cassa depositi e prestiti, s’intende) serve solo a deresponsabilizzare imprenditori che hanno già lucrato con i soldi degli italiani. Il governo dovrebbe mostrare il volto dell’arme e non solo favorire, ma “imporre” la concorrenza.
Proprio qui, invece, ha dato prova di estrema cautela sconfinando nella debolezza. Nessuna delle corporazioni più forti e rumorose è stata messa con le spalle al muro. I tassisti sono diventati un facile bersaglio, un simulacro per lo più fuori tempo visto che la crisi ha ridotto la domanda. E in ogni caso l’esecutivo ha sempre fatto marcia indietro. Non c’è dubbio che il governo Monti deve cambiare passo per affrontare un autunno che si annuncia drammatico.
Ma l’agenda è scarna. Occorre rimettere tra le priorità la concorrenza, muovendosi con pungo di ferro e non solo col guanto di velluto. E bisogna riaprire il cantiere del fisco, “una zavorra”, ha detto Passera. L’unico modo per farlo è a somma zero, cioè senza gravare sul bilancio pubblico: insomma, a ogni riduzione delle imposte si deve accompagnare una riduzione, persino superiore, della spesa corrente. Ciò vuol dire che va cambiata anche la politica dei tagli. Nell’insieme è stata pro ciclica e ha aggravato la recessione. Mentre la spending review mostra ormai tutti i suoi limiti. Potare un po’ qua un po’ là non serve a granché.
Meglio aggredire comparti consistenti, secondo una logica che il governo ha rimosso, forse per paura di abbassare la guardia: si tratta, in altri termini, di mutare la composizione della spesa, abbassando il peso delle uscite correnti a favore degli investimenti. C’è grasso che cola in almeno tre comparti fondamentali che da soli equivalgono al 23% del prodotto lordo: acquisti di beni e servizi, personale, trasferimenti alle imprese. Perché non si riducono i prezzi d’acquisto incredibilmente favorevoli ai fornitori? Funziona il blocco del turnover degli statali? Che fine ha fatto lo studio affidato a Francesco Giavazzi sugli incentivi industriali? Secondo i calcoli di molti economisti queste tre voci possono scendere nel loro insieme di cinque punti sul Pil senza nessuna macelleria sociale, anzi con benefici consistenti per i cittadini.
Infine, il fattore lavoro. Si lavora troppo poco (e male), passa anche di qui la bassa competitività. E troppi pochi lavorano, passa di qui la riduzione del prodotto e del reddito. Siccome non siamo di fronte a un rallentamento congiunturale, ma nel pieno di una crisi strutturale che mette in discussione il nostro modello sociale e il nostro tenore di vita, è indispensabile lavorare meglio e più a lungo. Si può fare molto, ad esempio riducendo le festività e redistribuendo le ferie. E’ già successo negli anni ’70 e nessuno allora gridò al golpe sociale.
La platea dei lavoratori è aumentata in modo massiccio negli ultimi quindici anni; Enrico Giovannini, presidente dell’Istat, parla di una vera e propria rivoluzione silenziosa. Non basta e adesso il fenomeno si è bloccato. Colpa della recessione, ma anche del fatto che ai contratti atipici e flessibili non è stato sostituito nulla. Come spesso accade in Italia. Ridurre il loro uso truffaldino da parte delle imprese è sacrosanto. La legge Monti-Passera ha introdotto nuove norme interessanti, come il credito d’imposta per l’assunzione di giovani laureati, ma si tratta di quattromila assunzioni l’anno. La flexicurity ha portato verso la piena occupazione paesi come l’Olanda a basso tasso di impiego femminile. Il governo sa quanto l’Italia ne avrebbe bisogno.