La vittoria di Donald Trump, è stato scritto, chiude un’era. Quale, l’era del neoliberismo? No, quella si è chiusa con il crac finanziario del 2008 e la lunga recessione; il voto per The Donald, così come l’ondata di rancore e risentimento sociale che alimenta il neopopulismo, è la ricaduta politica di un paradigma infranto, quel triangolo magico che metteva insieme libertà economica, sviluppo e libertà politica. Oggi assistiamo alla fine di un abbaglio: ci si è illusi, infatti, che alla più profonda crisi del dopoguerra si potesse reagire con una risposta debole, affidata in economia ai salvataggi pubblici e alla politica monetaria iper-espansiva, ad aggiustamenti nel sistema finanziario dove quella crisi è maturata, a una prudente ritirata della globalizzazione, o meglio del libero scambio. Se fosse vivo J.M. Keynes parlerebbe di “fine del laissez-faire”, ma difficilmente ne sarebbe contento, perché avviene al di fuori di un vero ripensamento strategico del modello di sviluppo dominante.
Non che Trump sia consapevole di tutto ciò, lui è semmai l’epifenomeno, l’espressione secondaria del fenomeno principale. Se ne discuterà a lungo e da più parti si vedono i segni di questa riflessione di fondo che dovrebbe sgombrare il campo dalle reazioni emotive, dalla facile quanto inerme propaganda o anche dalla superficiale dialettica tra establishment e anti-establishment figlia anch’essa di una lettura strumentale di quel che accadendo. La realtà è che ha vinto un establishment, quello del protezionismo nazional-popolare, contro un altro establishment, quello multiculturale e globalista: un blocco di interessi è prevalso contro il blocco che aveva governato generando quella che abbiamo chiamato risposta debole.
In attesa di avere maggiori e migliori segni per leggere il prossimo futuro, possiamo solo chiederci quel che ci accadrà qui e ora. Un punto fermo nel nuovo ordine mondiale basato sul nazional-populismo è che l’Unione europea diventa l’anello più debole. Il suo modello, cioè un’istituzione che va oltre le nazioni, ma senza creare un nuovo assetto federale, appare nello stesso tempo incompleto, inefficace e fuori tempo. Viene eroso dal basso e dall’alto, dai nuovi localismi e dalla richiesta di recuperare la sovranità perduta, ma anche e forse ancor di più dall’impatto conflittuale delle grandi potenze. Stati Uniti, Cina e Russia non seguono più l’approccio cooperativo, più o meno illusorio, del G-20 o delle istituzioni nate all’insegna del multilateralismo, la dottrina dei progressisti che hanno guidato per otto anni gli Stati Uniti e hanno influenzato il resto del mondo.
Trump non conosce il numero di telefono dell’Ue, come avrebbe detto Henry Kissinger, infatti non ha telefonato a Jean-Claude Juncker, ma a Theresa May, Angela Merkel e François Hollande. Non ha chiamato nemmeno Matteo Renzi, non solo per lo scambio d’amorosi sensi tra il capo del governo italiano e Barack Obama, ma perché Roma è ininfluente e con The Donald è destinata a esserlo sempre di più. Oggi come oggi nessuno può immaginare il pluto-populista che guiderà gli Stati Uniti fare pressione sulla Germania per non cacciare la Grecia dall’euro e non penalizzare troppo l’Italia, come è avvenuto prima che Mario Draghi pronunciasse la sua formula magica, il “whatever it takes” che ha messo fine alla guerra dello spread.
Passerano tre mesi prima di capire cosa farà Trump, bisognerà attendere il suo discorso d’insediamento, a gennaio, e la composizione del gabinetto. Ma le prime indicazioni non promettono bene per l’Italia. È certo che metterà in cantiere meno tasse e più spese. Esultano i neo-keynesiani, gonfia il petto il partito dell’austerità addio, dello spendi e spandi, a destra come a sinistra. Calma e gesso. Bisognerà capire quali tasse, per chi, quanto e quali spese. Le prime stime calcolano che nei prossimi anni il debito pubblico americano è destinato a crescere, il dollaro scenderà e saliranno i prezzi con uno scossone verso l’alto ai tassi di interesse che potrebbe neutralizzare l’effetto benefico dell’inflazione sul debito, aggravando l’onere per le finanze pubbliche. Se un uso più spregiudicato della supremazia del dollaro può ridurre l’impatto negativo sugli Stati Uniti, è chiaro che saranno guai per l’area dell’euro, soprattutto per i paesi fortemente esportatori e quelli che, come l’Italia, pagano già un altissimo servizio del debito.
Anche la Bce verrà messa sotto pressione. Una ripartenza dell’inflazione potrebbe favorire un ritorno alla normalità monetaria come chiede da tempo la Germania, riducendo le tensioni interne. Ma per l’Italia che ha un debito così alto e tuttora crescente (nonostante le promesse del ministero dell’Economia), collocare i titoli di Stato non sarà facile. Con il rialzo dello spread i mercati giocano già d’anticipo e Draghi non può più fare molto.
Aspettiamo a fasciarci la testa, naturalmente. Ma è assolutamente saggio prepararsi a uno scenario imprevisto e aggiustare una Legge di bilancio costruita su altri presupposti. Pier Carlo Padoan non aveva previsto il trionfo di Trump. Non possiamo metterlo in croce per questo. Dovrebbe però sbrigarsi a prendere le contromisure.