Dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, si è acceso un dibattito tra le due sponde dell’Atlantico di cui pochi sembrano avere percepito il significato. Uno dei programmi di fondo di politica economica della nuova Amministrazione americana consiste nel rinegoziare la partecipazione finanziaria degli Stati membri della Nato tanto in materia di apporto all’apparato amministrativo dell’Organizzazione quanto alle spese per le operazioni comuni. Molto è cambiato degli ultimi sessant’anni: è fuor di dubbio, però, che gli europei hanno dedicato alla Nato, in termini sia assoluti che in percentuale del Pil, molto meno degli americani; ciò ha permesso all’Europa non solo la ricostruzione del continente dopo la Seconda guerra mondiale, ma anche di dotarsi di uno stato sociale che, quali che siano le differenze tra uno Paese e l’altro, è molto più esteso, molto più approfondito e molto più inclusivo di quello americano.
Per David P. Calleo, intellettuale liberal che ha avuto importanti incarichi al Dipartimento di Stato nella seconda amministrazione Johnson e che viveva tra Washington e l’Italia (Bologna dove insegnava e l’Isola d’Elba, buon ritiro per scrivere i suoi libri), quello delle spese per la difesa comune era il nodo essenziale dei problemi inter-atlantici. Un suo volume, uscito nel lontano 1970, si intitolava “The Atlantic Fantasy” e sosteneva che, terminata la fase della ricostruzione, l’Europa avrebbe dovuto prendersi carico della difesa comune non per timore del ritorno degli Usa all’isolazionismo, quanto per dar prova di “responsabilità europea”; altrimenti – scriveva Calleo circa cinquant’anni fa – si sarebbero esaurite non solo la partnership atlantica, ma anche l’integrazione europea, la vera e propria gloria della politica estera americana del dopoguerra.
Sappiamo come sono andate le cose: nel Ferragosto del 1971, ossia pochi mesi dopo la pubblicazione del libro di Calleo, per decisione degli Usa è stato posto fine al sistema di tassi di cambio definito a Bretton Woods. Da allora il concetto di comunità economica atlantica si è sempre più sbiadito sino a sparire quasi completamente. Si sono bloccati anche i negoziati commerciali per una vasta area atlantica di libero scambio, di movimenti di capitale, di investimenti e di aziende e persone con regole comuni in campo ambientale e sanitario.
Oggi i temi sul tappeto dei rapporti tra Stati Uniti ed Europa non sono sostanzialmente differenti da quelli esaminati nel libro di Calleo di circa mezzo secolo fa. Tornano alle luci della ribalta perché, da un lato, alla Casa Bianca c’è un Presidente che (quali che siano le valutazioni e i giudizi sulla sua personalità e le sua idee) li pone con grande chiarezza e nessuna raffinatezza diplomatica, e, da un altro, c’è un’Europa, priva di coesione e forse anche in via di spappolamento. Il problema della ripartizione delle spese Nato – si badi bene – è unicamente un grimaldello per tanti altri nodi di politica economica internazionale.
In questo quadro, com’è messa l’Italia? A mio giudizio, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha commesso ha grave errore nel muovere tutta la diplomazia italiana e americana per ottenere un endorsement dal Presidente americano uscente. Ne ha fatto uno ancora più grave nel dare il proprio supporto vocale, dalle colonne del Corriere della Sera, al Presidente americano entrante, come simbolo del “nuovo che avanza” e delle “riforme che premiano sempre”. Non tanto perché al Dipartimento di Stato si ironizza sul fatto che a Firenze si è passati da Machiavelli alla banderuola. Ma perché, dopo la Brexit, l’Italia ha quanto mai esigenza di supporto indiretto americano per risolvere le proprie questioni economiche: unicamente la finanza americana può, se vuole, contribuire ad alleviare il fardello del debito pubblico italiano e dell’eurozona.
Non hanno reagito molto meglio esponenti delle istituzioni europee e di Governi di altri Stati europei. Tutti, essenzialmente, in ordine sparso. Ciò rafforzerà l’opinione di numerosi americani che l’Atantic Fantasy è ormai un sogno del lontano passato e che l’Europa ha scelto di diventare uno degli anelli deboli dell’economia internazionale.