C’è ormai un nuovo comandamento da aggiungere al Decalogo. È una norma che sembra grottesca, anche nella sua formulazione: non mettere in discussione il neoliberismo e soprattutto non toccare il libero mercato. Ormai sono arrivati proprio a dieci gli anni della sofferenza, della crisi, della caduta drammatica e della ripresa stentata. Ma la battuta che va sempre di moda resta quella presa a prestito da un celebre film di Humphrey Bogart. Il grande attore scandiva al telefono, in una scena de “L’ultima minaccia” (1952), questa frase: “È la stampa bellezza! La stampa. E tu non ci puoi fare niente! Niente”. Da circa 25 anni si può ascoltare, di fronte a qualsiasi nefandezza finanziaria ed economica, la parodia dei Bogart del nuovo millennio: “È il mercato, bellezza”. Poiché l’ignoranza, anche in materia cinematografica, raggiunge ormai “vette irraggiungibili”, la frase non viene mai ripetuta per intero, ma solo enfatizzata nella sua parte iniziale.
Flavio Cattaneo se ne va da Telecom, che passa (guarda caso!) ai francesi con una liquidazione di 25 milioni di euro, che, a quanto si dice, aveva già concordato nel momento in cui accettava l’incarico. C’è solo qualche discussione di facciata e ben pochi si azzardano a entrare nel merito, che solamente un Adriano Olivetti o altri grandi banchieri italiani del passato giudicherebbero quasi una vergogna. Secondo la vulgata impacciata, anche di quelli che denunciano le diseguaglianze economiche e sociali di questo periodo storico, si tratterebbe di un “manager perbacco” e quindi siamo di fronte “Al mercato, bellezza!”
Qualche anno fa, il supposto nuovo “mago” della finanza italiana, Alessandro Profumo, il personaggio che attaccò la vecchia Mediobanca, fu “invitato” a dimettersi da Unicredit per i risultati
Non proprio confortanti: la liquidazione, per il meccanismo delle famose stock options, arrivò a superare i 40 milioni di euro. Naturalmente, anche in quel caso, la sentenza fu scontata: “È il mercato, bellezza!”.
La frase, di fatto, è ormai un logoro “passepartout” , che si adatta a vari personaggi e a un mondo dove non c’è mai stata una così grande concentrazione di ricchezza e, nel mondo occidentale, una così grande diseguaglianza sociale e di reddito tra alcuni ceti e i “pochi eletti”, quelli che abitano nel “fortino della ricchezza”. Dopo il 2007, nell’Occidente del “mercato non si tocca”, arrivarono 30 milioni di disoccupati, si affacciarono nuove povertà che si ritenevano impensabili e si salvarono invece un imprecisato numero di banche per interventi statali (cioè dei cittadini contribuenti) con miliardi di dollari, di euro o di sterline. Per averlo detto in un’Enciclica, anche il Papa è stato scambiato per un comunista.
Un dato americano del 2010, quello di una Commissione del Congresso, stabiliva che l’ammontare dei “titoli tossici” stampati disinvoltamente e in modo scriteriato dalla nuovo finanza “liberata” ammontava a dieci volte il Pil del mondo. È un dato vecchio, che dovrebbe essere aggiornato, ma nessuno riesce ancora a sapere o solamente a immaginare quanti “derivati” (ormai solo autentiche scommesse) navighino a piede libero per il mondo e galleggino in banche famose, anche nelle celebrate centrali della finanza tedesca.
Sarebbe interessante vedere quanto hanno pesato questi interventi sui debiti pubblici attuali, rispetto alla supposta eredità di quelli che si attribuiscono all’allargamento “scriteriato secondo alcuni” del welfare degli anni Ottanta.
Si aggiunga, che in questo “marasma liberista”, spesso indecifrabile, volutamente indecifrabile, ci sono diversi tipi di tassazione, c’è un dumping vergognoso sui contratti di lavoro e sulla pressione fiscale. Non è probabilmente un caso che il presidente della Commissione europea, Jean Claude Junker, sia un lussemburghese, famoso per essere un prestigiatore delle “manovre fiscali” e una sorta di “croupier” dei “paradisi delle tasse”. Ma nulla scalfisce il nuovo comandamento de “È il mercato, bellezza!”
Siamo in una Unione europea, dove pare che lo sport preferito sia quello di “farsi le scarpe a vicenda”. La Germania, “dea osannata” dello spirito comunitario, viola palesemente gli accordi, dopo aver raggiunto un surplus commerciale che, solo alla fine del 2016, raggiungeva il 9,2 percento del suo pil, circa 255 miliardi di euro. Libera di peccare nel surplus commerciale, ma arcigna e rigorosa quando si tratta di flessibilità da concedere, quando deve bacchettare la politica della Bce e infine…quando deve mettere in ginocchio la Grecia. La Francia dell’enarca (gollista che esce dall’Ena) Emmanuel Macron rimedia, sempre alle spalle dell’Italia, ai disastri fatti in Libia dal “geniale” Nicolas Sarkozy. Un’unica meta, un unico obiettivo: l’interesse della Total, la compagnia petrolifera transalpina. Quindi le incursioni di ogni tipo contro industrie italiane (come è esattamente il caso Fincantieri?), in uno shopping irritante e poi “parole al vento”, con di fatto relativa presa in giro e durezza inusitata, sul problema dei migranti. Anche in questo caso, al di là di qualche alzata di sopracciglio, il refrain è sempre lo stesso “È il mercato, bellezza!”
A questo desolante panorama, si aggiunga che i nuovi dati più confortanti del Fondo monetario internazionale, che ci riguardano da vicino, indicano una speranza, ma si è subito specificato che non incideranno per nulla sulla disoccupazione: restiamo a livelli spaventosi soprattutto su quella giovanile. Eppure nel Paese, in questa Italia “repubblica dei pm fondata sui senza lavoro”, si ha ancora il coraggio di parlare. Intervengono i tecnici della spending review e spiegano dove bisognerebbe tagliare, dove occorre intervenire. Parlano di numeri con una facilità disarmante, come faceva Elsa Fornero e il “Monti in loden”, dimenticando forse che dietro a quei numeri ci sono persone in carne e ossa. Meglio ripetere: persone in carne e ossa.
Poi, in una serie di mesi rivelatisi inutili, si continuano a predisporre leggi che hanno come bersaglio soprattutto i “politici”, la “spesa politica”, mentre l’azione dei grandi finanzieri è sempre figlia, de “È il mercato, bellezza”. Al massimo si accusano singoli finanziarie, non il nuovo “spirito” della banca che fa trading con i soldi dei depositanti. Persino un “falso nuovista” come Paolo Mieli ha giudicato, in un dibattito televisivo, la legislatura italiana, dopo il referendum del 4 dicembre, una “cosa patetica”, una sorta di inseguimento a spargere antipolitica per guadagnare qualche voto. Il film che si adatta di più all’Italia parlamentare di oggi sarebbe proprio “Per qualche voto in più”, regia di Pd e M5S, che non ha a nulla a che vedere con il capolavoro di Sergio Leone.
Ora, dette tutte queste cose, non vorremmo essere scambiati per dei nostalgici del “socialismo reale” e della pianificazione statale, perché già da giovani avevamo imparato il concetto di “programmazione democratica” a cui si ispiravano autentici riformisti, socialisti, liberal-socialisti, uomini come Giorgio Amendola e Ugo La Malfa. Siamo anche consapevoli che di fronte alla complessità dell’economia e della finanza attuali, i rimedi di stampo keynesiano potrebbero essere superati, inattuali e forse persino inattuabili.
E quindi è forse importante che si ridiscutano non solo le ricette di Keynes, Schumpetere, Polany, fino ai critici come Hyman Minsky, Paul Krugman e Joseph Stiglitz. Ai ragionamenti di uomini come Francesco Forte, che si sono ispirati al riformismo e all’economia sociale di mercato. Ma è possibile almeno che a questi fautori de “È il mercato, bellezza”, a questi “dogmatici” signori della privatizzazione, anche dell’acqua e tra un po’, forse, dell’aria, venga almeno un dubbio? Siano almeno sfiorati da qualche dubbio, solo qualcuno per carità, sulla stabilità di questo capitalismo che da dieci anni fa acqua da tutte le parti e non riesce più a creare ricchezza e coesione sociale, oltre che spazi di libertà reale come un tempo?
Sorge qualche dubbio che si debba pensare e poi ripensare a questo capitalismo, che è sempre da salvare probabilmente, come diceva Franklin Delano Roosvelt di fronte agli “zucconi” della sua epoca? Secondo la “ricetta Di Maio” basta risparmiare sulle spese politiche, sui vitalizi, sul riconteggio in chiave contributiva delle pensioni. Pensare che la politica non sia una professione. Immaginate se uomini come Roosevelt e Churchill non avessero fatto politica per tutta la vita, come vorrebbero gli “illuminati pentastellati”. Ci sarebbe un’inflazione di “biondi falsi”, perché probabilmente avrebbe vinto il Fuhrer e quindi la “razza”.
Il “pensiero unico” del neoliberismo diventerebbe davvero un Reich millenario. Dio ce ne scampi e liberi.