Matteo Renzi fa bene a lanciare un taglio delle imposte. Chi come noi aveva chiesto al governo con petulante insistenza di mettere in cantiere una riduzione della pressione fiscale, prudente, ma certa per i prossimi tre anni (così abbiamo scritto), non può che apprezzare l’ultima uscita del presidente del Consiglio. È giusto anche battersi affinché l’Unione europea mostri comprensione e offra margini di manovra, in sostanza una maggiore flessibilità nella regola del deficit. Non si capisce tra l’altro perché si continua a concedere alla Francia un disavanzo del 4% rispetto al Pil e alla Spagna addirittura del 6%. I due paesi hanno un debito ancora inferiore al 100%, mentre l’Italia è a quota 133%. Vero, ma l’Italia ha anche un avanzo sia primario (entrate e uscite al netto degli interessi) che strutturale (cioè al netto degli interventi anti-recessivi) superiore a quello della Francia e della Spagna. Dunque, i conti pubblici, per quanto sempre precari, sono migliori, se bisogna calcolarli con i criteri europei.
Detto questo, occorre entrare nel merito delle scelte. La prima osservazione è che Renzi spera troppo che l’Ue chiuda davvero un occhio. Le prime reazioni del commissario francese Pierre Moscovici sono gelide. Vedremo, ma dopo l’accordo con la Grecia è sbagliato credere che Berlino e Bruxelles siano più accondiscendenti. Al contrario. I tedeschi e i loro satelliti erano per la Grexit e/o il regime chance ad Atene; hanno dovuto accettare bon gré mal gré un terzo salvataggio a spese dei contribuenti europei gestito (almeno per ora) da Tsipras. Dunque, la loro vigilanza sarà ancora più occhiuta e la loro posizione ancor più intransigente nei confronti di paesi a rischio come l’Italia è e resta.
Grecia humanum Italia diabolicum. Chi pensa il contrario non ha capito come sono andate le cose e che aria tira per il futuro. La prudenza e una lucida analisi degli equilibri politici vuole che l’Italia conti soprattutto sulle proprie forze, e che il governo prepari un consistente programma di riduzione della spesa corrente. Quanto si può recuperare?
Si dice che sono previsti già tagli per 10 miliardi. In realtà, dovevano servire a evitare un aumento secco e automatico dell’Iva e delle accise dal primo gennaio prossimo (la cosiddetta clausola di salvaguardia). Nel frattempo la Consulta ha aggiunto 3,5 miliardi per il rimborso delle pensioni e almeno 7 per i contratti degli statali. Secondo la Confcommercio ci sono 23 miliardi di sprechi negli enti locali. Ma le cifre sono ballerine. Carlo Cottarelli sostiene che per il 2015 ci sono tagli veri da 8 miliardi. Ma, come ammette nel suo libro, la spending review non è mai stata davvero una priorità.
La spesa corrente è un colabrodo, mentre quella per investimenti è stata dimezzata in rapporto al Pil. Dunque, occorre un intervento urgente e radicale per tappare i buchi e recuperare risorse da destinare alla riduzione delle imposte e all’aumento degli investimenti pubblici. Progetto ambizioso, forse troppo, anche perché bisogna stare attenti che gli interventi sulle uscite non abbiano effetti recessivi. Tuttavia, senza questo la riduzione della pressione fiscale perde credibilità.
La seconda questione riguarda la scaletta temporale. In molti, anche dentro il Pd (non solo la sinistra, ma anche il renziano Filippo Taddei) preferiscono che si cominci dal lavoro. È questa la posizione della stessa Confindustria. Un anno fa Renzi, quando varò il bonus di 80 euro, promise che nel 2015 lo sgravio sarebbe stato esteso alle categorie tagliate fuori, a cominciare dalle partite Iva. Aveva ragione e allora perché ha cambiato idea? Saltare di palo in frasca aggiunge incertezza, e dio solo sa se in questo momento non c’è bisogno proprio del contrario.
Intendiamoci, la tassa sulla prima casa è stata un errore. Tutti (anche chi come il centrodestra era contrario) hanno sottovalutato l’impatto psicologico che è stato catastrofico. In ogni Paese, si dice, i proprietari di case pagano imposte consistenti. Lo fanno anche in Italia in modo confuso e irrazionale. Ma non è vero che tutti in Europa tassano la prima casa. Un Paese ad alta pressione fiscale e più bassa proprietà immobiliare come la Svezia, per esempio, esenta la residenza se in appartamenti cittadini, mentre paga l’imposta chi sceglie la villetta con giardino. In sostanza, ciascuno si regola in modo diverso tenendo conto di quanto sia sensibile il bene casa soprattutto quando si tratta della propria residenza. Del resto, l’imposta sulla prima casa non dà nemmeno un grande gettito fiscale. Dunque, è giusto tornare indietro, riconoscendo che è stata una misura più o meno necessaria, ma in ogni caso temporanea.
Tuttavia non si vede perché non rinviare questo provvedimento al 2017, per continuare in modo organico con un alleggerimento del carico fiscale sul lavoro. Può darsi, come si dice, che Renzi si sia basato su sondaggi riservati. Ma la continuità e il rispetto degli impegni valgono molto più dell’aleatorio umore registrato con interviste telefoniche dallo scarso valore scientifico. Renzi è bravo a rimescolare sempre le carte per far perdere la bussola ai suoi critici e avversari, ma non è più tempo per improvvisazioni.
L’Italia è percorsa da un’onda di sfiducia, pessimismo, timore per il futuro, incertezza per il presente e rimpianto (anche ingiustificato) del passato. Ciò spinge la gente a comportamenti individualmente razionali (salviamo il salvabile, teniamo i risparmi sotto il materasso) che generano una conseguenza irrazionale sul piano collettivo (scarsa domanda, stagnazione, deflazione). Per spezzare il circolo vizioso bisogna introdurre dosi continue e massicce di un antidoto che generi certezza, prevedibilità, stabilità. C’è da augurarsi che di qui alla prossima finanziaria, il capo del governo, il fidato consigliere Gutgeld e il prudente ministro Padoan se ne rendano conto e mettano a punto una vivanda con poco fumo e molto arrosto.