Perché ogni lunedì mattina, su questa testata, appare almeno un commento critico nei confronti dell’azione di un Governo che vuole essere riformista e riformatore? Me lo hanno chiesto alcuni colleghi corsi alla corte di Matteo Renzi per soccorrere “l’uomo del 41%”. La risposta è semplice. Il Presidente del Consiglio è un uomo di mezza età – può essere considerato “giovane” solo secondo i canoni delle gerontocrazie del Sud-Est Asiatico – che sa di essere brillante ma non onnisciente e che si deve guardare da chi sottolinea le sue ‘buone azioni’ senza fargli notare le trappole che esse generano o i trabocchetti in agguato.
Matteo Renzi dovrebbe tenere a mente il testamento del magnate siderurgico americano, Andrew Carnegie, creatore, tra l’altro, della Carnegie Hall e del Carnegie-Mellon: il suo esecutore testamentario ebbe un milione di dollari (del 1919!) perché – come da istruzioni testamentarie – la lapide nel cimitero di Pittsburgh è semplicissima e ha scritto il suo nome e cognome, data di nascita e di morte e la frase “Andrew Carnegie fu un nuovo fortunato perché ebbe collaboratori sempre più brillanti di lui”. Alla larga dai sicofanti; si ascoltino i grilli parlanti anche se fastidiosi.
Sabato la stampa, che ha dedicato pagine alla riforma della Pubblica amministrazione e all’ondata di nomine (con commenti per lo più positivi, ove non piaggeriscamente adulatori), ha relegato tra le brevi le notizie che lo stock di debito pubblico ha toccato i 2.146 miliardi di euro, che i mercati attendono con trepidazione le valutazioni di Moody’s e che, sinora, il Governo non ha presentato un programma organico su come affrontare questo nodo.
Quel che è più grave è che non ha fatto alcun cenno alle preoccupazioni espresse, senza troppi “se” o “ma”, dal Fondo monetario internazionale. Il Working Paper n. 14/76 (ne sono autori due economisti Fmi distanti e distinti dalle nostre beghe: Brenda González Hermosillo e Christina Johnson) è eloquente: l’Italia e la Spagna hanno sostituito la Grecia come elemento cruciale di contagio dello “stress” finanziario. Si giunge a questa conclusione da un’analisi della volatilità dei Credit default swaps (Cds) di Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Spagna e Portogallo. La volatilità dei Cds – lo sa chi lavora sui mercati finanziari – è indicatore più complesso ma più eloquente dello studio dello spread dei rendimenti sui titoli pubblici a medio e lungo termine. Il Cds trasferisce il rischio di credito da un titolo a un altro; nel caso specifico da quelli di Grecia, Irlanda, Italia, Spagna e Portogallo a quelli della Germania.
C’è una forte co-dipendenza (rivela lo studio) nella volatilità dei Cds italiani e spagnoli (rispetto a quelli tedeschi). Ciò rende questi due paesi il focolaio di crisi europee. Inoltre, quasi in parallelo, uno studio di Kevin Daniel Sheedy (peraltro divulgato unicamente ai soci del Cepr, Center for European Policy Research- Discussion Paper No. DP9843) sottolinea come in mercati finanziari incompleti (come quelli europei) sono essenziali “obiettivi chiari e realistici di crescita del Pil nominale” per potere disporre del quadro per affrontare il debito (e pubblico e privato).
In parole povere, non solo la strategia “flessibilità per le riforme” (il “patto politico” a cui il Governo mira per il Consiglio europeo dell’ottobre 2014) ha le fragilità illustrate più volte su questa testata, ma se non si appronta subito un piano convincente per ridurre il debito, l’Italia rischia di essere considerata dai partner europei (ben prima di ottobre) come un appestato, o un untore, in grado di contagiare gli altri sui mercati finanziari. In tal caso, l’esecutivo Renzi potrebbe utilizzare il semestre di presidenza italiana degli organi di governo Ue unicamente per appellarsi alla “clemenza della Corte”.