La giungla istituzionale in cui è precipitato il Paese dopo il risultato elettorale si fa sempre più fitta e sconsiglierebbe di commentare ogni uscita dell’antipolitica o ogni passo che la politica tradizionale muove nel disperato tentativo di trovare improbabili vie di fuga, se non fosse che, a volte, si passa ogni limite di razionalità.
E, quindi, raccogliendo pur a malincuore la provocazione, può essere utile mettere a fuoco qualche elemento che consenta di valutare l’ipotesi di “avere un Paese senza Governo”, ovvero di riproporre in Italia come buono quanto successe in Belgio tempo fa.
I casi sono due: o non si sa che cosa fa il Governo, o si gioca con le parole, pensando che si possa confondere la funzione di indirizzo politico con l’istituzione “Consiglio dei Ministri”. Attualmente infatti il Paese non è senza governo: lontano dalla scena politica, tutta l’ordinaria amministrazione (e anche la “straordinaria” amministrazione, quella che consente ai ministri in carica di far fronte ad evenienze particolari in cui venga a trovarsi il Paese – vedi ad esempio il caso dei militari italiani tornati in India) continua ad essere svolta dal Governo in carica, che uscirà di scena solo nel momento in cui vi sarà la nomina formale del nuovo. Questa situazione è fisiologica: un Paese senza governo non è in grado di funzionare, visto che – in quel caso – tutto si paralizzerebbe essendo il Governo l’unico titolare del potere di spesa, una volta che il Parlamento lo abbia autorizzato con la legge di bilancio. Né il Parlamento potrebbe avocare a sé tale funzione, visto che manca di tutte le strutture tecniche in grado di far andare avanti la baracca. Approvasse leggi, esse resterebbero lettera morta.
E, pertanto, la proposta avanzata avrebbe una sola conseguenza, quella di continuare ad avere il governo che abbiamo il quale – da cronaca recente – non vede invece l’ora di andarsene.
Occorre ancora ricordare come, al di là dei tecnicismi del giurista, l’assemblearismo è una tentazione ricorrente nei momenti di crisi; esso ha una forte carica rivoluzionaria e antisistema muovendo dalla tesi – indimostrata – che ogni consesso “rappresentativo” non possa essere tale ma tenda a snaturare il proprio mandato appropriandosi dei contenuti del mandato stesso.
Non a caso tempo fa fu avanzata la proposta di eliminare il divieto di mandato imperativo per tornare ad avere eletti in contatto diretto con l’elettorato. In realtà il mandato diretto con l’elettorato, benché ammantato dell’aura di onestà, finisce per ridondare nel controllo dell’apparato partitico sulla persona e finisce quindi per tramutarsi nel suo contrario: non uno strumento di onestà e trasparenza, ma un modo per pochi di avere un dominio totale e indiscriminato sui molti.
Insomma: non vi è alternativa all’esistenza di dinamiche fiduciarie per il buon funzionamento di un sistema democratico.
Il rapporto elettori/eletti e quello tra Parlamento che concede la fiducia (istituto tipico dei sistemi di governo parlamentari) e il governo cui essa viene accordata vive di una fiducia che è sostanziale, che lega le persone alle istituzioni e alla finalità per cui esse esistono, quella ad esempio di “governare” (cioè di decidere, in accordo con il Parlamento, che strada far prendere al Paese – funzione di indirizzo politico – e predisporre i mezzi con cui diventa possibile percorrere tale strada – funzione amministrativa).
Senza questa fiducia di fondo, nelle persone e nelle istituzioni, tutto diventa possibile, ogni irrazionalità diventa possibile e persino plausibile. Come del resto ricordava Dostoievskij a proposito di Dio.