Nell’ultima settimana il governo giallo-verde e i due partiti che lo compongono, Movimento 5 Stelle e Lega, hanno subito una serie di docce fredde arrivate dal gelido contatto con la realtà. Sugli immigrati, ad esempio, le schermaglie e i magri (anzi contraddittori) risultati del Consiglio europeo, hanno mostrato che non si può fare da soli e non resta che mediare con Germania, Francia e Spagna. Gli “amici” del gruppo di Visegrad sono i primi a chiudere la porta in faccia. Quanto all’Austria, è in bilico tra le sue pulsioni interne e il richiamo della foresta germanica. Giuseppe Conte si è mosso con una certa abilità tattica, ma alla fine “l’avvocato del popolo” è dovuto ricorrere alle tattiche e agli escamotage di ben altri tribunali.
Sorprese ancor più evidenti vengono dalla politica economica. Persino le categorie sociali e le lobby che avevano aperto le porte ai cinquestelle, alla Lega, al “governo del cambiamento”, hanno avuto un brusco risveglio di fronte alla realtà. La Confcommercio ha tributato una standing ovation a Di Maio quando alla loro assemblea ha promesso che l’Iva non aumenterà, ma il presidente Carlo Sangalli ha bocciato il provvedimento del ministro del Lavoro perché è “un ritorno al passato sui contratti a termine”. L’irrigidimento del mercato del lavoro non piace nemmeno alla Confesercenti, tanto meno alla Confindustria che ha lanciato un attacco ad ampio spettro: il partito della crescita contro il partito dei sussidi, quello che vuole produrre il reddito e quello che vuole distribuire il reddito che non è stato prodotto.
Gli imprenditori sono allarmati anche dall’idea di imporre sanzioni per chi de-localizza pur avendo preso sostegni dallo Stato (per esempio, i macchinari acquistati con gli incentivi di industria 4.0). È in ballo una questione di fondo: chi fa le scelte produttive, il governo? Tira un’aria da Gosplan che non può certo tranquillizzare le aziende. Nemmeno il salario minimo per legge convince la Confindustria, e non solo perché limita la contrattazione tra le parti sociali, ma perché, senza una riforma della rappresentanza e una revisione dei livelli a favore dei contratti aziendali, introduce un fardello in più, inutile se il salario minimo è uguale o inferiore a quello dei contratti nazionali, dannoso se è superiore, senza alcun collegamento con la produttività e la prestazione lavorativa. Intanto rispuntano gli odiati voucher contro i quali i cinquestelle hanno tuonato in campagna elettorale.
C’è poi la posizione del ministro delle Infrastrutture, il grillino Danilo Toninelli, il quale intende bloccare le grandi opere (come la Tav, la Tap, il Terzo valico) a favore di quelle che ha chiamato “opere piccole”. Mentre Di Maio sta sbattendo la testa di fronte all’Ilva. Adesso dice che deve studiare 23 mila pagine e rimanda tutto a settembre, quando arriverà la resa dei conti anche per l’Alitalia.
Salvini ha promesso una “pace fiscale”, cioè un mega condono per chi deve meno di centomila euro, con il quale finanziare almeno in parte la riforma dell’Irpef. A sentir parlare di condono s’è leccato i baffi tutto “il popolo delle partite Iva”. Poi sono arrivate le simulazioni sulla flat tax, ipotesi ancora di scuola, ma mostrano che i benefici maggiori vanno ai redditi più elevati.
Fatti i conti in tasca e visto che il condono non darà in ogni caso risorse sufficienti, i contribuenti cominciano a farsi il proprio conto dei costi e dei benefici. Tanto più che emergono altre idee non del tutto tranquillizzanti: una patrimoniale sugli immobili che s’aggiunge alle imposte già esistenti, e un taglio alle pensioni. Si parla di quelle oltre i cinquemila euro mensili, ma chi tocca le pensioni muore, lo si è visto con la legge Fornero.
Ogni giorno spuntano nuove idee spesso balzane. Il leghista Armando Siri vuole emettere titoli di stato riservati agli italiani con tassi d’interesse più elevati per contrastare lo spread e rinazionalizzare tutto il debito collocato all’ estero (circa un terzo del ricorso totale al mercato). Dimentica che i nuovi tassi diventerebbero un punto di riferimento, spiazzando i titoli a tassi ordinari secondo il vecchio principio che la moneta cattiva scaccia quella buona. Lo stesso esponente del governo vuole la flat tax subito anche a costo di sforare i parametri europei. Chissà che cosa ne pensa Giovanni Tria al quale spetta la gestione del debito e del deficit pubblico?
Il ministro dell’Economia con una intervista al Corriere della Sera ha spento le fiamme di una speculazione apparsa all’orizzonte di fronte all’infinito elenco di spese senza coperture e all’ipotesi che il governo giallo-verde stesse studiando un piano segreto per uscire dall’euro. “Doveva parlare prima “, lo ha rimproverato Carlo Messina, il capo della banca Intesa Sanpaolo, ricordando che la mini-crisi dello spread è costata cara alla sua banca la quale ha visto ridursi da 53 a 43 miliardi il suo valore azionario: “Eravamo la terza banca europea – ha detto Messina – adesso siamo la quinta. E si è ridotta anche la nostra forza: a 33 miliardi diventiamo contendibili”, cioè scalabili. Anche se in ritardo, Tria ha pronunciato parole di moderazione e saggezza, ma non è certo il “whatever it takes” di Mario Draghi.
Il ministro è atteso alla prova della finanziaria. Vuole negoziare più flessibilità con Bruxelles, proprio come aveva fatto Matteo Renzi (si potrebbe dire che il governo del cambiamento non porta grandi cambiamenti). Tuttavia non ha intenzione di sfondare il limite del 3%, né di aumentare il disavanzo fuori misura. Non solo. Conte ha avuto un colloquio con Draghi durante il vertice di Bruxelles e il capo della Bce lo ha ammonito di non fare nulla che peggiori il debito e di badare che i negoziati con la Ue sulla riforma della governance non presentino trappole come l’idea di rinegoziare il debito pubblico che finiscono per mettere in allarme i risparmiatori. Questa, infatti, è la variabile chiave che determina i comportamenti di chi detiene i titoli di stato, ciò vale si per gli stranieri sia per gli italiani.
La realtà, dunque, prende il sopravvento quando dai proclami si passa alle scelte concrete. È senza dubbio incoraggiante. Lo è molto meno il fatto che finora il governo appare paralizzato dai dissidi interni, dalle indecisioni, dalla scoperta di non conoscere come funziona la macchina della politica che non si risolve certo in comizi, selfie e messaggi su twitter (indecisi se siano tweet cioè cinguettii o twit cioè rimproveri).