Il nuovo Parlamento si insedia oggi nel massimo della confusione. “È una confusione normale, la classica Italian mess; o è confusione seria, vera?”, chiede l’emissario di un fondo americano arrivato per capire se conviene o no mettere i quattrini dei propri clienti nei titoli del Bel Paese. E non nasconde la propria sorpresa per le dichiarazioni dell’Ambasciatore a stelle e strisce David Thorne, il quale invita i giovani italiani a fare come il Movimento 5 Stelle. Ha ragione lui o Peer Steinbrück, sfidante socialdemocratico di Angela Merkel, secondo il quale gli italiani hanno eletto due clown, Grillo e Berlusconi? O magari hanno ragione entrambi, perché i punti di vista e gli interessi dei tedeschi e degli americani sono completamente diversi: la Germania vuole stabilità, l’America cambiamento. L’uno e l’altro, non sono gratis.
Davvero la confusione è grande sotto il cielo. Lo spread italiano si è avvicinato a quello spagnolo e torna la tensione sui mercati dei titoli pubblici. Mentre le forze politiche, quelle vecchie e quelle nuove, restano sostanzialmente autoreferenziali: tutti guardano solo al proprio ombelico e nessuno sa veramente cosa fare. Se Grillo cede alle sirene del Pd e accetta di spartire le cariche istituzionali, che fine fa il sovversivismo del suo movimento? Se Bersani dialoga con il Pdl, cogliendo l’ultimo dei numerosi inviti di Giorgio Napolitano a tenere conto degli equilibri veri usciti dalle urne, quindi del 30% di elettori che hanno votato a destra, quanti altri salteranno sul carro grillino? E Berlusconi, dopo aver salvato il salvabile, ottenuto il riconoscimento che voleva dal presidente della Repubblica, riuscirà mai ad accettare che il suo partito faccia davvero politica e non organizzi solo il servizio d’ordine attorno al capo?
Non c’è da stupirsi, dunque, se Fitch declassa il debito italiano o se i tanti ambasciatori del capitale internazionale volano via allarmati. La crisi è precipitata nell’estate 2011 per la sfiducia dei mercati. Poi s’è aggravata per la sfiducia degli italiani nei confronti dei mercati (identificando in Monti il loro inviato speciale). Il convergere di questa doppia sfiducia ha creato lo stallo attuale. Però i protagonisti si occupano d’altro. Cose importanti sia chiaro, ma nel medio periodo (la riduzione dei costi della politica, le riforme istituzionali, la stessa legge elettorale che tutti vogliono cambiare, ma ciascuno in modo diverso). Intanto, arriva il momento di fare i conti, di preparare la legge di bilancio, di presentarsi al vertice europeo con il quaderno dei compiti a casa. E i conti non sono buoni.
La recessione è peggiore del previsto, ciò incide automaticamente sulle entrate (riducendole) e sulle spese (aumentandole). Il disavanzo, dunque, cresce, anche se resta al 2,6% del Pil e c’è un surplus primario (cioè al netto della spesa per interessi) che potrebbe addirittura sfiorare il 3%. La Ue è disposta a concedere dei palliativi, tenendo conto della congiuntura. Ma è troppo poco. Sarebbe il momento di trattare un rinvio di un anno del pareggio del bilancio. La Francia, del resto, ha già detto che per lei di riequilibrare i conti non se ne parla, almeno fino al 2017.
Un rinvio italiano farebbe saltare i nervi al governo tedesco, ma in realtà nemmeno i più rigoristi avrebbero nulla da temere: l’Italia conferma il suo attivo primario, dunque nessun aumento del debito; verrebbero solo “congelati” gli interessi che riguardano lo stock storico. Il vantaggio non è un maggior deficit spending, ma evitare che la camicia di Nesso chiamata Fiscal compact si stringa ancora. E aprire spazi per rinviare l’aumento dell’Iva a luglio, impostando con la prossima finanziaria una nuova politica fiscale che riduca la pressione tributaria nel 2014. Se poi si invertono le aspettative, torna un po’ di domanda e la produzione risale, diventa possibile guardare all’anno prossimo con più fiducia.
Un discorso di buon senso, minimalista, ma nella confusion de confusiones, in mezzo a deliri irenici che coprono giochi di palazzo (sì anche quelli grillini non sono altro che giochi di palazzo, in jeans e scarpe da ginnastica anziché in doppiopetto, ma la sostanza non cambia) ci vuole pragmatismo. Il problema è chi sarà in grado di proporre a Bruxelles questo compromesso. E così torniamo al rebus principale.
È probabile che Napolitano non possa evitare che Bersani consumi le sue cartucce in un primo tentativo di fare il governo. Poi dovrà decidere se forzare i tempi con un governo istituzionale (magari affidato al presidente del Senato) oppure lasciare Monti e abbreviare i tempi per eleggere il nuovo capo dello Stato. Dunque, appare sempre più chiaro che la partita decisiva, il grande gioco, riguarda il Quirinale.
Il nuovo presidente della Repubblica è la vera cartina di tornasole e, con tutta probabilità, dovrà indire nuove elezioni. A quel punto molte cose potranno cambiare. Esiste un radicato senso comune secondo il quale senza nuova legge elettorale, tutto sarebbe inutile. Certo, sarebbe complicato, ma inutile no. È chiaro che l’Italia, ormai, ha un amplissimo elettorato fluttuante che sceglie anche all’ultimo minuto, in funzione dell’offerta politica che trova. E se si presenta Renzi, l’offerta cambia. Il Pd perderebbe a sinistra, ma prenderebbe anche una parte di voti finiti a Grillo per pura protesta anti-Bersani. Lo stesso centrodestra sarebbe costretto a tener testa alle novità, non potendo riproporsi tale e quale.
Nel frattempo, bisogna tener duro per schivare nuove tempeste finanziare. E offrire, fin da oggi, qualche indicazione chiara.