Per Ferruccio de Bortoli (allora direttore de Il Corriere della Sera) non c’erano dubbi già nel settembre 2014, pochi mesi dopo l’avvento di Matteo Renzi a Palazzo Chigi: attorno a lui c’era “uno stantìo odore di massoneria”. Dietro di lui – anche se de Bortoli non lo scriveva – si scorgeva la silhouette di Denis Verdini: plenipotenziario del declinante Silvio Berlusconi, tessera 1816 della loggia P2, massoneria di stretta osservanza toscana. Verdini – recentemente condannato per fatti corruttivi a Firenze dopo esser stato coinvolto nel crac di una banca di credito cooperativa toscana – ha concretamente realizzato la nascita del “Partito della nazione” renziano, staccando una porzione di Forza Italia ed entrando nella maggioranza di governo. Un ingresso non preceduto da alcun invito, un ingresso tacitamente accolto dal premier, contestato da una larga parte del Pd molto più di quanto il Cavaliere abbia deplorato la diaspora in Fi.
Per Eugenio Scalfari – fondatore di Repubblica – Renzi è invece un giovane Giovanni Giolitti. Il profilo del premier toscano non è quello di Berlusconi e Bettino Craxi come molti sostengono, ma quello di uno dei tre statisti che hanno costruito l’Italia unita contemporanea con Cavour e De Gasperi (sarebbe interessante – ma non è questa la sede, distinguere fra tutti i cognomi fin qui citati chi era o è massone – come sicuramente Cavour e Giolitti – e chi certamente non lo era, come De Gasperi). Fatto è che Scalfari ha proposto questo spunto storico-politico ieri commentando il rischio di “incendio politico” dopo il caso Guidi. E se ha censurato il nuovo dilagare della corruzione nella società italiana, Scalfari si è mostrato in fondo preoccupato che l’incendio travolga Renzi e il suo tentativo di Terza Repubblica.
È così che Scalfari, icona del giornalismo d’inchiesta e protagonista di epiche battaglie politico-giornalistiche contro l’Eni di Eugenio Cefis, nel suo sermone di ieri non entra praticamente mai nel merito delle indagini sulle trivellazioni in Val d’Agri. Divaga e discetta, invece, in termini quasi politologici, sul cammino del referendum No-Triv e sulla teoria della gestione politica dei conflitti fra interessi dell’impresa e tutela dell’ambiente. Ma sui conflitti d’interesse conclamati di un’industriale e leader confindustriale installata da Renzi al ministero dello Sviluppo economico il Fondatore quasi sorvola. È più preoccupato di mettere anche la sua mano sul capo del ministro Maria Elena Boschi: se poi la Procura di Arezzo (la città di Licio Gelli, ndr) dovesse decidere, allora, ecc. Ma la conferma di un’evidenza banale come l’opportunità di dimissioni della Boschi in caso di rinvio a giudizio del padre per il crac Etruria è suonata ancora una volta come un’attesa preoccupata.
Il resto è stato solo pensosa, “paterna” osservazione dei “progressi” del “giovane Giolitti”: ancora da 5 – cioè non ancora alla sufficienza – se Giolitti è il 10. Ma solo “la storia potrà giudicare”, conclude Scalfari con accenti da vate. Accenti definitivamente insoliti: perché è la Repubblica di Scalfari ad aver sistematicamente, programmaticamente invocato e preteso il giudizio istituzionale dei magistrati sulla cronaca che si fa storia. È nella weltanschauung di Repubblica che la “storia istantanea” – oltreché la democrazia reale – non la fanno gli storici, ma le intercettazioni giudiziarie pubblicate dai media. È una visione storica in cui un’Italia con un “Capo” (sic!) è stata sempre il male assoluto: chissà perché Scalfari sembra meno rigido sull’argomento paragonando Renzi – in Chief – a Cameron od Obama.
Sembra comunque scordare quando un altro premier disse di volersi assumere “tutte le responsabilità storiche” – ma non quelle penali – dell’omicidio di un parlamentare, anzi: dell’omicidio del Parlamento. Quel Capo era Benito Mussolini e lo disse il 3 gennaio 1925, varando le leggi liberticide che inaugurarono la dittatura fascista in Italia.