Berlusconi? “Mi ha detto che stava accendendo ceri e pregando…”. Il giorno dopo la batosta al primo turno della corsa per (ri)diventare sindaco di Roma, Gianni Alemanno non sembrava proprio convinto della strategia del gran capo del Pdl per sostenerlo al ballottaggio. Neanche il gran capo, del resto, sembrava particolarmente interessato ai risultati, come sempre quando non sono buoni. E qui c’è tutta l’eterna questione del Pdl. Il quale ha preso una batosta, e seria, nel tour delle Amministrative di domenica. Quasi in nessun Comune è arrivato a superare il 20%, a Roma ha perso più di 300 mila voti. Un calo che va a confermare il crollo nazionale (sei milioni di voti in meno) delle recenti Politiche. Poi, come si sa, Silvio Berlusconi ha sempre il suo stellone che lo assiste: per cui, esattamente come a febbraio, il fatto che gli avversari siano andati o molto peggio di lui (Grillo) o comunque non particolarmente bene (Pd) ha consentito ancora una volta al Pdl di imbellettare la situazione (conviene anche a Enrico Letta) e dire che in fondo il voto ha premiato le larghe intese e chi le sostiene per senso di responsabilità.
La realtà è un po’ diversa. E il cero votivo del povero Alemanno aiuta a decifrarla. Dopo vent’anni di vani tentativi di trasformarlo in un partito normale a elettorato stabile, il Pdl è sempre se stesso: va bene quando Silvio Berlusconi gioca in prima persona sul suo terreno preferito, la campagna elettorale. Si affloscia appena il Cav. tira i remi in barca, per noia o perché ha fiutato il trend negativo, e lascia i suoi a combattere da soli. Nel cero di Alemanno c’è la speranza (Berlusconi a Roma era pure andato, ma così, per uno spettacolino tirato via), ma anche la disillusione.
E si potrebbe chiudere qui la questione del partito-teatrino condannato a replicare se stesso. Se non fosse che il Pdl è anche più di questo, e più profondo è anche il suo momento di difficoltà. L’aspetto complicato sta nelle cose: il partito è impegnato, con i suoi uomini più in vista, a sostenere un governo che non ama, e in cui può al massimo puntare i piedi su cose che sanno più di propaganda che di strategia, come l’Imu. In queste situazioni, giocoforza Berlusconi si nasconde.
Non gradisce, sopporta, scalpita. Ma allo stesso tempo, gli uomini e le donne del Pdl nel governo – da Alfano a Lupi a Quagliariello – sono tutti sostenitori convinti delle larghe intese: vale a dire, se non proprio di questa forma di governo necessariamente transitoria, senza dubbio di una linea politica moderata, non populista, guidata da una leadership non personalista e possibilmente condivisa. Insomma il partito che non c’è, che non è mai nato, ma che paradossalmente è il vero partito reale, nel senso di quello che sta governando l’Italia.
Ma che non può dirlo più di tanto, perché il padre fondatore e azionista di maggioranza, nonché l’unico che prende i voti, non è d’accordo. Una situazione politicamente folle, a ben guardare, e non facile da gestire, soprattutto in prospettiva. E gli elettori non è che non se ne accorgano: così, tra generico astensionismo da sfiducia totale nella politica e astensionismo specifico dell’elettore berlusconian-pidiellino, i voti dalle urne continuano a evaporare.
A questo va aggiunto un altro dato estremamente significativo: la débacle della Lega, che ha perso, e molto male, ovunque, nelle sue terre. Dimostrando di essere ormai un movimento a fine ciclo. Il che porta con sé una conseguenza fondamentale a livello nazionale: il “forza-leghismo”, che è stato il vero motore e il punto di attacco ideologico del centrodestra per vent’anni è storicamente finito, in quella formula. Fare finta di niente, confidando che al Nord la sinistra non riuscirà mai a sfondare davvero, può essere molto pericoloso. Che succederà quando – in un intervallo che va da uno a quattro anni – si tornerà alle elezioni? Ci sarà ancora il Gran Demiurgo a riunire e far risorgere il suo popolo disperso, ma senza saper bene che farsene poi, o ci sarà un partito con un’altra visione di insieme, ma senza un popolo pronto a seguirlo? Per il momento, accendere i ceri.