Gli ultimi dati dell’Istat sull’occupazione confermano, purtroppo, le previsioni negative da tempo formulate. Alla bolla finanziaria e al calo della produzione fa seguito, con qualche ritardo, una crisi del mercato del lavoro. Questa è una tendenza comune a vari paesi e verificatasi anche nelle crisi precedenti.
Ma le difficoltà attuali sono particolarmente gravi per la severità della crisi e perché questa coincide con un periodo di grandi cambiamenti economici, tecnologici, ambientali di scala mondiale che incidono sul modo di produrre, di lavorare e di vivere.
L’Italia non fa eccezione. Non è il caso di consolarsi dicendo che stiamo meglio di altri. Non basta fermarsi al dato della disoccupazione ufficiale, che peraltro è già oltre l’8,2 % e crescerà l’anno prossimo oltre il 9%: i dati peggiori da un decennio. Alla disoccupazione ufficiale bisogna aggiungere i lavoratori inattivi perché da tempo in Cassa integrazione (un equivalente di oltre 500.000 unità) e i soggetti così scoraggiati che non si attivano più per cercare lavoro e non sono quindi censiti fra i disoccupati.
Infatti i tassi di attività italiani, già più bassi delle medie europee, sono calati di oltre un punto. Molti lavoratori autonomi, professionisti e partite Iva, di cui finalmente si stanno occupando la stampa e la politica, cessano l’attività o la riducono al minimo senza che nessuno li conti.
Inoltre la crisi occupazionale colpisce in modo particolarmente grave i giovani. Qui la disoccupazione è cresciuta dal 18% al 27%, il triplo della media nazionale e fra le più alte in Europa. I 562.000 posti di lavoro persi nell’ultimo anno sono quasi tutti di persone che hanno meno di 40 anni. E il 70% di questi soggetti giovani entra nel mercato del lavoro con contratti precari (a termine, collaborazioni e simili).
Le ricerche presentate la scorsa settimana alla Commissione lavoro del Senato indicano che chi comincia (così) male il lavoro ha conseguenze negative per l’intera vita lavorativa: minore retribuzione (fino al 25-30%), meno probabilità di avere un lavoro stabile e di progredire, minori prospettive di pensione (meno 20-30%).
L’attuale generazione di giovani rischia di pagare prezzi enormi. Per questo la gravità della situazione non può essere sottovalutata. Ora che si intravedono sia pur deboli segnali di ripresa economica, occorre intervenire con progetti per il futuro, come chiedono non solo le opposizioni politiche, ma sindacati e imprenditori.
Interventi lungimiranti sono tanto più necessari perché ci vorranno anni per recuperare i livelli attuali di produzione e ancora più di occupazione. L’esperienza di paesi più forti di noi, come gli Stati Uniti e la Francia, mostra che le gravi crisi degli anni Ottanta, sono state superate solo dopo 7-8 anni.
Una prima urgenza è di accelerare la ripresa produttiva. Se il nostro paese riprende a crescere solo del 0,4-0,5%, come prevede la Banca d’Italia per il 2010, ci vorrà quel numero di anni per recuperare la produzione e l’occupazione perdute. Per questo serve un sostegno consistente, più di quanto sia stato messo a disposizione dal governo, alle imprese che vogliono investire e innovare.
Serve cioè una politica industriale coraggiosa e di lungo termine come il progetto industria 2015 previsto dal governo precedente, poco recepito da quello attuale e ora ripreso anche nelle proposte della Confindustria. L’innovazione va diretta a promuovere una crescita di qualità, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale; e di questo fa parte il sostegno a un occupazione più qualificata e più stabile.
La green economy è un’area di grande potenzialità anche per l’occupazione, come mostrano gli esempi di molti paesi avanzati, dalla Germania agli Usa alla Corea del Sud e come confermano le previsioni dell’Ocse.
La seconda urgenza è di attivare specifiche politiche del lavoro. Anzitutto occorre riordinare gli incentivi, ora dispersi e spesso sprecati, per concentrarli sulle imprese e sui settori innovativi e sul lavoro di buona qualità, disincentivando i lavori precari. Inoltre vanno generalizzati e rafforzati i sistemi di protezione per lavoratori e imprese colpiti dalla crisi.
Ancora una volta è il governatore Draghi a ricordarci che un milione e 600.000 lavoratori sono privi di tutele in caso di perdita del lavoro. La disoccupazione è comunque un fatto grave, ma affrontarla senza reti adeguate di protezione è un dramma sociale che il paese deve a tutti i costi evitare.
Per questo serve una riforma vera degli ammortizzatori sociali che li estenda a tutti i lavoratori, specie a chi ne ha più bisogno: collaboratori, contratti a termine dipendenti delle piccole imprese e anche lavoratori autonomi e partite Iva che soffrono le conseguenze della crisi non meno dei dipendenti.
Un’occasione per dare un segnale concreto, riaprendo la delega al governo su questo tema, può essere il ddl lavoro collegato alla Finanziaria calendarizzato alla camera per la riapertura di gennaio: lo chiedono le parti sociali e lo stesso relatore al ddl on. Cazzola.