E’ un periodo di “paragoni stravaganti”. Sul decisionismo di Matteo Renzi, si stanno esibendo giornalisti di antica fama, forse confondendosi un poco nelle valutazioni. Renzi vale il 50 per cento di Giovanni Giolitti? Risposta quanto meno problematica. Renzi è il “prolungamento” di Silvio Berlusconi? Sembra una semplificazione da quiz televisivo. Ma adesso, con la proposta di disertare il referendum e poi con il confronto aperto con i magistrati, si pone un nuovo paragone tra Matteo Renzi e Bettino Craxi.
Intanto, nel modesto e povero “immaginario” dei “pentastellati” si cerca di tradurre già “tangentopoli” in “trivellopoli” e quindi Renzi diventa una sorta di “nuovo Craxi” anche per certi “nobili” improvvisatori che frequentano i salotti televisivi, sbagliando magari grossolanamente i dati sul debito pubblico.
In questo modo, la politica italiana si riempie di neologismi cacofonici e dimentica continuamente i contesti storici in cui sono avvenute importanti svolte politiche. Solo superficialmente si possono paragonare, nei loro atteggiamenti e nel loro modo di operare, personalità politiche diverse che appartengono a periodi storici differenti.
A Hammamet, un anno prima di morire, Craxi ripercorreva spesso la sua vicenda umana e politica. Sosteneva che quello che era avvenuto in Italia nel 1992 era il frutto di una destabilizzazione ad ampio raggio, dove si poteva vedere l’azione di centrali di potere estero, di potere finanziario internazionale, di grandi poteri anarchici italiani che puntavano già allora su governi tecnici.
C’era anche la “mano” della magistratura. Ma questa magistratura (piuttosto vecchia, barocca, anacronistica rispetto a quella dei grandi paesi democratici, e pure sindacalizzata) con l’apparato mediatico al suo fianco, rappresentava alla fine il “braccio armato” di un’azione di destabilizzazione irresponsabile, secondo il leader socialista, a cui partecipavano in molti.
Se si fanno alcuni paragoni, occorre essere approssimativamente precisi. Almeno questo. Tutta la storia di Craxi era stata di grande linearità fino all’esplosione di tangentopoli. In quella sinistra italiana, dove il “riformismo” era un disvalore e dove nella maggioranza del Pci, almeno nei suoi vertici, si ricordava sempre “la lezione storica del leninismo”, Craxi rappresentava l’alternativa del socialismo democratico ed europeo. Non per nulla era un vicepresidente dell’Internazionale socialista. E fu a Craxi che i leader socialisti (quelli europei dell’Ovest) chiesero se il Pci, diventato post-comunista pur mantenendo fino al 1998 il simbolo del Komintern nel suo simbolo, poteva essere accettato nell’Internazionale socialista.
Bettino Craxi pensava che, caduto ormai il Muro di Berlino e cambiato nome, tutta la sinistra italiana, ex Pci compreso, potesse entrare a far parte del “riformismo europeo” e diede il via libera. Come risposta, Craxi ebbe dal popolo, sedicente postcomunista insieme a quello del “democratico” Msi, la pioggia di monetine davanti al suo albergo romano e poi un’infinita serie di attacchi furiosi e scomposti.
Nei rapporti con la magistratura, in realtà, ci furono anche aperture da parte di Craxi. Come quando depose in tribunale sulla famosa tangente Enimont. Come quando intervenne (per tre volte alla Camera) sostenendo, nell’imbarazzo e nel silenzio generale, che il sistema del finanziamento illegale dei partiti, che riguardava tutti, andava cambiato, ma che non si poteva criminalizzare tutta l’esperienza della “prima repubblica” vissuta all’ombra della guerra fredda.
Con un partito comunista che aveva prima ingenti finanziamenti diretti dal nemico, dall’Urss; poi un’amministrazione “straordinaria” che lo stesso Enrico Berlinguer conosceva molto bene; un’amministrazione che il partito si guardava bene dal rivelare in modo veritiero ai suoi iscritti.
E’ quasi inutile ripetere certe vicende che ormai stanno diventando storia. In realtà, era la dinamica di chi voleva destabilizzare l’Italia che spingeva allo scontro il leader socialista, i partiti democratici del pentapartito contro i magistrati. I quali, certo, avevano subito una severa lezione sul piano dell’immagine con il referendum sulla responsabilità civile del 1987, perso con l’80 per cento di favorevoli. Ma la parte rilevante dello scontro era costituito nell’ordine: dal piano di destabilizzazione; dalla messa a soqquadro del potere politico con una stampa compiacente in mano a poteri ancora forti; dalla sconfitta storica del comunismo che era anche merito della lotta riformista nella sinistra italiana ed europea. E’ in questo contesto che vanno viste le ragioni per cui l’ordine giudiziario, che reclamava potere, attaccò con durezza Craxi.
Si intervenne addirittura direttamente in televisione per bloccare il decreto Conso, suggerendo manovre tutte da decifrare storicamente al presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro.
Quello che è avvenuto dopo è ormai oggetto di studio. E quando si ricostruirà a mente fredda tutta la vicenda italiana del 1992 in poi, si dovrà almeno spiegare perché il Craxi in Tunisia era un latitante per i magistrati, ma meritava un “funerale di Stato” per il Governo in carica. Un autentico rebus o quanto meno un enigma istituzionale.
Matteo Renzi è ora anche lui polemico con i magistrati. Li invita a interrogarlo sull’emendamento che ha scatenato il putiferio. Sembra quasi che li sfidi. Rivendica che lui i processi li vuole perché arrivino presto a sentenze, mentre altri volevano solo sottrarsi ai processi. Renzi è certamente critico verso questa magistratura che arriva sempre puntualmente a scandire i tempi dell’agenda politica italiana e a tracciare i limiti dell’azione di un governo o di una maggioranza politica. Ma non sembra che voglia affondare i colpi della sua polemica.
E’ anche vero che la situazione politica italiana è arrivata a un tale punto di polverizzazione e di sfarinamento che non ha neppure bisogno di un ulteriore colpo di destabilizzazione. Detto in poche parole, Renzi appare sempre più non il “rottamatore”, ma il liquidatore del potere politico italiano, in una repubblica dove ormai si sono insediati poteri di ogni tipo.
Il paragone a questo punto diventa da un lato improprio, ma dall’altro ricorda sempre l’incipit di un celebre libro di Karl Marx sul colpo di Stato del 18 brumaio di Luigi Bonaparte, “Napoleone il piccolo”, come diceva Pietro Nenni. Ricordando per sommi capi quell’inizio di libro, Marx diceva che Hegel aveva scritto, in qualche parte della sua opera, che la storia si ripete sempre. Aveva ragione, sosteneva, Marx. Ma Hegel si era dimenticato di dire che la prima volta la storia si svolge come in una tragedia, la seconda volta si trasforma in farsa.