Qualcosa comincia davvero a scricchiolare. L’indice di fiducia delle imprese tedesche, Ifo, è infatti sceso, a giugno, oltre le previsioni a 109,7 punti rispetto ai 110,2 del consenso e ai 110,4 di maggio, segnalando che la prima economia della zona euro è preoccupata per le crisi politiche in Ucraina e Iraq. Il sottoindice relativo alle condizioni attuali è risultato pari a 114,8, a fronte dei 115 attesi dagli analisti e dei 106,2 precedenti, mentre quello delle aspettative è rimasto invariato a 104,8 (105,9 il consenso). «L’economia tedesca teme l’impatto potenziale delle crisi in Ucraina e Iraq», ha commentato il presidente dell’Istituto Ifo, Hans-Wener Sinn, precisando che a giugno le imprese sono risultate meno ottimiste sugli sviluppi futuri. Inoltre, l’esperto ha notato che il sentiment è sceso notevolmente nel comparto manifatturiero, mentre è salito nelle vendite all’ingrosso ed è migliorato leggermente nelle costruzioni, dopo quattro cali consecutivi.
L’indice Ifo in Germania è sceso «per la terza volta negli ultimi quattro mesi attestandosi sui minimi da 6 mesi», ha osservato l’economista di Capital Economics, Jennifer McKeown, sottolineando che l’esito riflette i recenti declini dello Zew e dei Pmi tedeschi: «La voce relativa alle condizioni attuali ha tenuto bene, ma il continuo decremento di quella prospettica suggerisce che le imprese non sono state colpite dalle azioni recenti della Bce. Detto questo, entrambi gli indici restano su livelli elevati, coerenti con una crescita annuale del Pil di circa il 2,5%», ha puntualizzato McKeown, a detta del quale la ripresa continuerà a un ritmo ragionevole, anche se i segnali di un rallentamento sono un’indicazione deludente per il motore principale dell’Eurozona.
Le misure varate dalla Banca centrale europea a inizio giugno per combattere un periodo di prolungata bassa inflazione e per favorire l’erogazione del credito alle Pmi non sembrano dunque avere avuto gli effetti desiderati dopo che ieri un’altra doccia fredda è arrivata dalla lettura preliminare del Pmi composito di giugno, sceso a 52,8 punti dai 53,5 di maggio e del consenso. In particolare, sono stati proprio i paesi core come Francia e Germania a pesare sulla performance negativa del Pmi e l’indice Ifo pubblicato ieri ha confermato un’economia tedesca sotto pressione. Detto fatto le Borse europee hanno tutte risentito di questa contingenza, virando più nettamente in negativo dopo un’apertura in “verde” nella mattinata.
In compenso, prosegue lo shopping delle banche sul mercato dell’obbligazionario sovrano. Sempre ieri, infatti, il differenziale tra Bonos spagnoli e Bund è stato pari a 134 centesimi (2,66% il rendimento del decennale iberico) dopo che il Tesoro di Madrid ha collocato 933 milioni di titoli a tre mesi al tasso dello 0,11% dallo 0,295% dell’asta precedente e 2,596 milairdi di bond a nove mesi al tasso dello 0,307% dallo 0,552% scorso. Anche la domanda è stata solida con un rapporto di copertura salito, rispettivamente, da 3,5 a 3,8 e da 2,3 a 2,4. Oggi sarà invece la volta del Tesoro italiano, che in occasione del primo dei tre collocamenti di fine mese metterà a disposizione degli investitori tra i 2,5 e i 3,5 miliardi di Ctz/Btp indicizzati a dieci anni: l’offerta è spalmata per 2-2,5 miliardi sulla quinta tranche del Ctz 29 aprile 2016 e per 500 milioni-un miliardo sulla quarta riapertura del Btpei 15 settembre 2024. Tranquilli, sarà un successo in ogni caso.
C’è però un problemino. Qualche tempo fa vi parlavo del fatto che i continui record registrati da Wall Street, soprattutto dall’indice S&P 500, erano frutto soltanto dei buybacks azionari delle aziende, ovvero riacquisto di titoli a qualsiasi prezzo per abbassare il flottante disponibile sul mercato e mantenere alta la valutazione dell’azione, visto che i bilanci vanno chiusi e le performance in Borsa consentono di raggiungere i risultati trimestrali previsti, ancorché indebitandosi per compiere quei buybacks. Bene, è di ieri la notizia che dopo aver devastato il proprio mercato obbligazionario interno, il più grande del mondo, riducendo a zero il trading sul secondario a causa degli acquisti di massa della Bank of Japan, il Giappone sta battendo gli Stati Uniti anche proprio nella categoria dei buybacks azionari.
Stando a dati ufficiali, il riacquisto di propri titoli da parte delle aziende quotate a New York nel secondo trimestre è già adesso addirittura maggiore di quello del primo, con acquisti che superano i 200 miliardi di dollari. Ovvero, ogni mese le aziende quotate alla Borsa di New York ricomprano circa 70 miliardi di proprie azioni sul mercato, qualcosa che se continua così arriverà a pareggiare il programma di acquisto della Fed per il terzo Qe, ovvero gli 85 miliardi di dollari prima del “taper”. E lo chiamano libero mercato.
È di ieri però il dato di Bloomberg in base al quale le aziende quotate al Topix di Tokyo stanno dando vita a buybacks al ritmo più alto mai visto, guidate da NTT Docomo e Toyota, con qualcosa come 25 miliardi di dollari di riacquisti previsti per quest’anno. Direte voi, non è un dato più alto di quello degli Usa. Vero, peccato che grazie alla Fed gli indici statunitensi siano stati tra i più performanti al mondo, mentre il Topix è il peggio performante degli indici equity: in parole povere, solo i buybacks stanno limitando le perdite – e quindi ritardando il crollo – del mercato azionario giapponese in pieno programma di espansione monetaria. Inoltre, le emissioni obbligazionarie giapponesi a livello netto annuale sono ben al di sotto della metà del quantitativo di acquisti mensili da parte della Bank of Japan, il che significa che anche parte del denaro a costo zero della banca centrale sta già finendo sul mercato azionario.
Per l’analista Masahiro Suzuki della Daiwa Securities Group, non ci sono dubbi: «I buybacks azionari hanno l’effetto di supportare il mercato quando questo è debole». Dall’inizio di gennaio sono state 152 le aziende quotate al Topix che hanno annunciato buybacks per un valore di 2,5 triliardi di yen, mentre il livello più alto mai toccato fu raggiunto nel 2008 con 1,5 triliardi di yen e nella decade conclusasi nel 2013 le aziende resero noti buybacks per una media annuale di soli 567 miliardi di yen. Volevate la ricetta del “miracolo” giapponese? Eccola, una trucchetto in tutto e per tutto simile a quello statunitense, peccato che in compenso la Bank of Japan è riuscita anche a terremotare il mercato obbligazionario interno, di fatto eliminando qualsiasi investitore privato.
Se i mercati, pur supportati in ogni modo – banche centrali e buybacks – continuano a non dare segnali di slancio ma vengono solo aiutati a restare sul livello e limitare le perdite, cosa succederà quando il metadone di Stato e privato finirà? Tanto più che ora anche l’economia reale tedesca comincia a perdere colpi, mentre l’unico acquirente di debito sono le banche, le quali in caso di fallimento degli stress test potranno godere di un “ombrello” di denaro pubblico, come deciso dall’Europa. Ovvero, altro debito per gli Stati già pesantemente indebitati.
Il sistema è rotto, completamente sconnesso dai fondamentali e mantenuto in vita da trucchi contabili: così non si va avanti. E se lo si fa, è solo per avvicinarsi al burrone.