Dal 21 al 23 aprile, a Washington il meeting primaverile di Fondo internazionale e di Banca mondiale non è stato di buon augurio per l’Italia. La stampa economica ha posto l’accento sulle preoccupazioni evidenziate a proposito dei non performing loans (insolvenze e crediti incagliati) del nostro Paese; la riduzione è lenta e limitata e soprattutto il problema non riguarda solamente noi e il nostro sistema bancario, dato che i nostri Npl rappresentano un terzo del totale dell’area dell’euro. Quasi in parallelo, la Banca centrale europea, nella propria indagine trimestrale sulle condizioni del credito concesso dalle maggiori banche alle controparti rappresentato da strumenti finanziari denominati in euro, avverte che su questo mercato ci sono tensioni, che potrebbero aumentare. Tanto Fmi e Bm quanto Bce avvertono l’aumento del rischio geopolitico.
L’insieme di questi elementi, e di altri, ripropongono un elemento che nel Def-Pnr sembra si sia voluto se non ignorare de-enfatizzare, ribadendo che la situazione è sotto controllo: il debito pubblico. In effetti, con uno stock di debito che supera il 130% del Pil (rispetto all’impegno assunto a Maastricht di portarlo, entro tempi ragionevoli, al 60%) e di cui oltre un terzo è detenuto da fondi stranieri, ce ne sarebbe abbastanza da far tremare i polsi. Senza dimenticare il downgrade appena operato da Fitch sull’Italia proprio per il “fallimento” nella riduzione del debito pubblico.
Da circa una diecina di giorni, circola a Washington, a Francoforte e anche a Roma un lavoro con interessanti novità negli Economics Research Papers di Bath (N. 61/17). Ne sono autori due economisti spagnoli Marta Gomez-Puig e Simon Sosvilla Rivero, che sovente lavorano come consulenti della Bce. Si intitola “Heterogeneity in the Debt-Growth Nexus. Evidence from EMU Countries” (Eterogeneità nel nesso tra debito pubblica e crescita. Prova dai paesi dell’Eurozona). E ci riguarda da molto vicino. Sulla base di dati e analisi più recenti, i due economisti mettono in discussione circa venti anni di scritti secondo cui, sulla base del lavoro pioneristico di Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff, il debito pubblico frena la crescita se supera il 90% del Pil.
Sulla base di un’analisi relativa ai Paesi dell’unione monetaria europea dal 1961 al 2015, Marta Gomez-Puig e Simon Sosvilla Rivero pongono l’asticella molto più in basso utilizzando tecniche di analisi più raffinate di quelle di Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff e relativa come si è visto unicamente all’area dell’euro. In tutti i Paesi dell’unione monetaria, il debito pubblico comincia ad avere effetti negativi sulla crescita dell’economia reale quando raggiunge il 40% del Pil nei Paesi dell’Europa centrale e il 50% in quelli dell’Europa meridionale. Implicitamente, quindi, l’obiettivo, nel trattato di Maastricht, che il debito non superi il 60% del Pil, dovrebbe essere rivisto al ribasso. Secondo i due economisti spagnoli, le politiche di austerità devono continuare a essere applicate nell’unione monetaria, ma dato che non sembra abbiano inciso sul debito, urge che siano accompagnate da politiche strutturali (liberalizzazioni, denazionalizzazioni, riduzione del perimetro del settore pubblico, ecc.) tali da aumentare le produttività e i rispettivi Pil potenziali. Tuttavia, l’asticella varia da Paese a Paese, una media generalizzata sarebbe poco utile. L’analisi conclude che l’aggiustamento dovrebbe essere più lento in Grecia e Spagna e più veloce in Italia.
A queste analisi si aggiunge un lavoro di Irem Demirci (Università di Mannheim), Jennifer Huagn (Cheung Kong Graduate School of Business) e Clemens Sialm (University of Texas, Austin) che rappresenta un altro avvertimento “Goverment Debt and Corporate Leverage. International Evidence” (Debito pubblico e capacità di indebitamento aziendale. Dimostrazione internazionale), Nber Working Paper No. w23310. L’analisi riguarda 40 Paesi ad alto reddito e copre il periodo 1990-2013 e documenta una relazione negativa: quanto più elevato il debito pubblico, tanto maggiore è l’effetto di spiazzamento sugli investimenti aziendali. Lo studio esamina in particolare l’evoluzione del mercato.
Difficile comprendere perché questi avvertimenti non abbiano riscontro nella politica pubblica italiana e perché i vari piani di riduzione del debito sono stati accantonati. Mettendo la testa sotto la sabbia, aumenta il rischio di trovarsi a fronteggiare una crisi gravissima.