La guerra dei numeri è iniziata sul tema della crescita. I dati sono assai diversi, quasi divaricanti e sconvolgono la gente semplice, gli ultimi che non saranno mai primi e lo sanno, e tutto ciò alimenta viepiù la sfiducia verso ciò che oggi si chiama “il palazzo”, ossia il potere in tutte le sue forme. Il mito illuminista che si possa dar conto di tutto sotto la luce al neon della dea ragione tremola e si spegne e questo aggrava l’angoscia. Ma se usciamo un attimo dalle polemiche vediamo che tutto si riduce a poche essenziali questioni.
Ebbene, la prima è di natura gnoseologica. Ossia, non si può parlar di cifre se non si definisce dapprima che cosa sia un’economia buona – e dico buona e non giusta per non entrare nella selva oscura della discussione etica soprattutto dopo le confusioni della filosofia analitica degli ultimi trent’anni, da Rawls in avanti. Mi limito a parlare di economia buona come parlo di vita buona. Ebbene, per alcuni il trionfo sta in Spagna – che, mi si dice, cresce del 2-3%. Un trionfo fondato sull’abbattimento del debito pubblico in misura rilevante, sulla crescita della borsa, sull’aumento del Pil inteso come quantità di capitale fisso aumentato rispetto agli anni precedenti e usando sempre una media statistica. Ossia, se prima eravamo scesi di venti piani ora risaliamo di due o di tre ma siamo pur sempre a 17 o 18 piani sottoterra, ma questo non la statistica, ma l’interpretazione statistica lo dimentica – il tutto mentre la disoccupazione aumenta. E questa sarebbe un’economia buona… per carità, non spreco parole per dimostrare che non lo è. E aggiungo, senza farmi sentire dagli avversari dei giusnaturalisti (come io sono), che non si tratta nemmeno di un’economia giusta.
Ma passiamo alla seconda questione. La crescita. Guardate cosa capita oggi in Italia. Tutti coloro che fanno previsioni su una crescita futura – quale che siano i numerini che si producono sulla base di complessi di equazioni fondate su elaborazione algoritmiche tratte da serie storiche e quindi incapaci di predire alcunché, ma solo di organizzare i fondamenti della predizioni presupponendo la costanza dei fattori – lo fanno sulla base di fenomeni esogeni alla nazione o all’area degli insediamenti umani interessati. Può essere – come oggi – la caduta del prezzo del petrolio, il calo dell’euro rispetto al dollaro che rilancia il mito che è stato disastroso della svalutazione competitiva, oppure si favoleggia della positività del bazooka della Bce mentre si affrontano finalmente i crediti inesigibili dalle banche preconizzando, come il sottoscritto predica da anni, la creazione delle cosiddette bad banks in cui infilare i crediti inesigibili, gli assetes tossici per poi rivenderli agli amanti del rischio, in un processo lentissimo, come fu quello vittorioso della soluzione della crisi sistemica delle case di risparmio nordamericane della fine degli anni Ottanta del Novecento.
Insomma, qui la crescita sarebbe tutta esogena e veramente ciò è una contraddizione di termini con tutta la storia di un settore assai potente ideologicamente, soprattutto sul piano del potere della cultura e della nomenclatura italica. Parlo del “de-ritismo”, ossia dei predicatori dei territori, a partite dai famosi rapporti Censis dei primi anni Settanta del Novecento.
Ma la vera crescita che interessa gli ultimi che così possono diventare i primi e gli economisti e i sociologi e gli antropologi, è tutta diversa dalla crescita endogena basata sulla dinamica del progresso tecnologico come via allo sviluppo della produzione all’interno di un Paese. È una teoria che è già in nuce sia in Malthus sia in Ricardo (un grande poco letto oggi, ma di grandissima attualità). Arrow e Sheshinski ci proposero, anni or sono, forse mal leggendo i due grandi prima citati, infatti, la chiave iniziale della crescita endogena: ossia fondata sul processo di learning by doing che genera avanzamenti tecnologici diffusi, attraverso un processo di spillover. Romer e R. Lucas diedero poi vita alla teoria della crescita endogena vera e propria, ampliando la classe dei beni capitali con l’introduzione del cosiddetto “capitale umano”; ossia di quelle che io ho chiamato (nei miei studi sulla crescita economica italiana del Secondo dopoguerra) le “capacità personali”, così da produrre rendimenti di scala crescenti anziché decrescenti.
Ciò che pare essenziale, quindi, diviene la creazione di beni tecnologici e idiosincratici che non possono che essere considerati che come beni pubblici. Essi rendono l’economia sempre in costante non equilibrio. Un non equilibrio che agisce come fattore di innovazione. Una vera e propria rivoluzione. Infatti, l’introduzione di una teoria del cambiamento tecnologico all’interno del modello di crescita neoclassico è complicata (è in verità impossibile), dall’impossibilità di mantenere l’assunzione standard di concorrenza perfetta. Il progresso tecnologico è connesso alla nascita di nuove idee, sempre con monopoli temporanei conoscitivi e non solo e che si connotano come parzialmente non rivali e quindi hanno caratteristiche di beni pubblici. Del resto, la produzione di beni frutto della ricerca scientifica e tecnologica non è mai ottimale (in senso paretiano), ma può essere incentivata da un’azione pubblica virtuosa (stato di diritto, infrastrutture, spese pubbliche per la ricerca, regolazione del commercio estero e della concorrenza mai perfetta e soprattutto dei mercati finanziari per non creare la prevalenza della rendita finanziaria a svantaggio del profitto capitalistico e della domanda interna). Tutto il contrario di quanto si stia facendo oggi in Europa e in Italia.
Non per ultimo il progetto di distruzione dell’allocazione plurima dei diritti di proprietà. Allocazione plurima che è essenziale per la crescita endogena perché consente di allocare rendimenti crescenti stimolati da diverse forme di proprietà come le banche e le imprese cooperative che debbono convivere con le imprese capitalistiche per addivenire a una crescita che sfrutti tutte le capacità personali presenti negli stabili aggregati umani territoriali
Questi sono i parametri, dunque, della crescita che bisognerebbe incentivare e a cui guardare: occupazione; lavoro che genera profitto e non rendita, finanziaria o non finanziaria, ma pur sempre rendita improduttiva; pluralità delle forme proprietarie.
Si rifletta anche su questo, oggi che siamo dinanzi al simil “colpo di stato da rendita esogena” contro la proprietà e la governance cooperativa delle banche popolari.