L’Europa sta decidendo sul suo futuro. Contatti frenetici tra capi di governo e cancellerie si susseguono. Il 26-27 giugno la “grande nottata” del Consiglio europeo che quest’anno oltre a Bruxelles si riunirà anche a Ypres, cittadina belga dove, nel corso della Prima guerra mondiale, si consumò la più terribile guerra chimica della storia. È altamente simbolica la coincidenza della commemorazione del centenario dall’inizio della Grande Guerra, che si concluse con un’Europa ridimensionata e soggiogata a regimi autoritari che si finanziavano presso le banche Rothschild e Warburg, prudentemente riparate a Londra e New York. Poi i regimi europei sono stati sconfitti e sottoposti alla tutela sovietica e anglo-americana. Allora la perfida Albione la faceva da padrona in Europa.
Anche oggi, nonostante le storie giornalistiche che artatamente presentano il Regno Unito come il perdente d’Europa, al centro delle decisioni europee è il sistema bancario e finanziario che in Europa fa capo alla City di Londra – a Francoforte la Bce ne è solo la rappresentazione organizzativa – che per via transatlantica raggiunge New York, Washington e Chicago. Il resto delle tematiche europee – politiche e programmi – sono un corollario del primo.
Quanto alle nomine, poi, si tratta dell’aspetto ludico-mediatico di minore importanza, che da vent’anni non ha visto partecipare che figure di secondo piano e nessun vero statista. Non sembra che ci siano elementi per credere nell’inversione di questa tendenza. Quindi, non ci si deve aspettare che i “prescelti” possano in alcun modo fare ombra ai timonieri, cioè ai cosmopoliti (e invisibili) banchieri e finanzieri. D’altra parte, sono questi ultimi che permettono ai politici di praticare le loro arti demiurgiche. Che si tratti di gruppi privati o istituzionali, il risultato non cambia: qual è la differenza tra la Troika e una grande banca privata d’affari? Quando questo circuito s’inceppa, oppure quando volutamente il sistema bancario-finanziario-industriale abbandona il campo ai politici non resta altro modo di finanziarsi che attraverso più o meno illegali modalità corruttive e collusive che “pescano” sempre di più nella ricchezza collettiva, cioè negli investimenti fatti con gli incassi fiscali. Il caso italiano è tristemente emblematico. Ma torniamo all’Europa. Che cosa si sta decidendo?
Il vero tema, assolutamente nascosto ai media, è l’Unione bancaria e fiscale. È su questo tema che, nell’ultimo triennio, in alcuni paesi sono saltati i governi (Italia) oppure che si sono consumate le più feroci guerre intereuropee (Germania-Regno Unito) oppure che si sono forzati riallineamenti geopolitici a prescindere dalla politica (Francia, Benelux, Spagna e Grecia). I “padroni del vapore” sanno che perché l’Unione economica e monetaria europea possa servire a qualcosa si deve rapidamente consolidare il sistema bancario, fiscale e finanziario europeo.
Solo consolidando l’Europa e inserendola nel più ampio quadro transatlantico – il noto accordo per il commercio e gli investimenti, Ttip, per il quale non a caso proprio il settore finanziario e bancario ha creato i maggiori ostacoli – i padroni privati e istituzionali della ricchezza possono prosperare, con profitti netti. Se il disaccordo, com’è prevedibile, renderà impossibile questo risultato, gli stessi padroni stanno già pensando alla soluzione B.
La prima opzione del piano B è a livello mondiale, con una “Bretton Wood II” – presentata per la prima volta dal senatore italiano Oskar Peterlini, al culmine della crisi finanziaria del 2009 – che sottolineava la “necessità di controllare l’emissione di denaro” e la necessità di collegarlo ad attività e a beni reali, piuttosto che alle attività finanziarie. L’attenzione inoltre era concentrata sul fatto che il mondo ha bisogno di un sistema finanziario con tassi di cambio fissi (costanti) e di “restrizioni alla libera circolazione” transfrontaliera del capitale di rischio.
Oggi, questa idea è rilanciata dal famoso speculatore finanziario George Soros e dalla famiglia Rothschild, che dietro il paravento del ritorno a un’economia keynesiana anche sostenuto dagli slogan di prestigiosi premi Nobel dell’economia, cioè di maggiore spesa pubblica nell’economia, in realtà cela il progetto di ristrutturazione globale (conferenza semisegreta del 2011): da un lato, si pensa alla creazione di una moneta sovranazionale, di istituire un unico centro di emissione monetaria globale (Banca centrale mondiale) e di ristrutturare il sistema finanziario globale; dall’altro, si incita la nascita di “un più ampio contesto culturale mondiale” che superi le barriere culturali nazionali, cioè che, per quanto possibile, ogni fondamento culturale e morale della società deve essere compromesso, per ristrutturare il potere oligarchico mondiale dietro una maschera democratica. Non è un caso che proprio Soros abbia investito parte della sua immensa fortuna nell’organizzazione della Open Society (la società aperta) che opera in più di 60 paesi nel mondo.
Si intuisce che per questi “signori”, che preferiscono l’opzione B, l’attrattività di sistemi-paese come Cina e Russia sia altissima: bassi costi di transazione garantiti dal deficit democratico; poche regole, ma tutte con alta valenza e polarizzazione politica. Tuttavia, non tutto fila liscio come vorrebbero lor signori. Il primo che ne pagò pesantemente le spese fu il capo del Fmi, Dominique Strauss-Khan, che nel 2011 andò da Gheddafi in Libia a discutere di un piano per la creazione di una moneta panafricana (il dinaro oro) slegata dal giogo del dollaro americano. Immediatamente dopo seguì il bombardamento della Libia, la destituzione di Strauss-Khan e in Italia di Berlusconi, le “primavere arabe”, le crisi del debito pubblico europeo, e da ultime le crisi in Ucraina e in Iraq e Siria.
I difensori del piano A, cioè dollarizzazione per tutti e per sempre, hanno reagito veloci (meno di tre anni). Non è chiaro se riusciranno nell’obiettivo senza doversi ingaggiare in ulteriori “azioni” nei confronti di Russia e Cina che fatalmente si sono riavvicinate, pensando anche ad alternative monetarie slegate dal dollaro.
Forse, adesso risulta più chiaro perché i media non parlano più di Unione bancaria e fiscale europea (il piano A). Stiamo infatti assistendo a una vera e propria guerra intra-occidentale, tra i fautori del piano A e B, e mondiale per evitare che da qualche parte qualcuno riesca a realizzare un sistema valutario e fiscale indipendente. In Europa, la Germania ha provato a percorrere la strada della “indipendenza” dagli Usa. Tra spionaggio della Nsa e Ucraina, anche la Germania sta con riluttanza riallineandosi agli Usa. Tuttavia, il prezzo da pagare, per gli americani, è di sacrificare l’alleato britannico in Europa. Questo significa, che la Germania si riallineerà solo al prezzo di mantenere la propria egemonia sull’Europa continentale, marginalizzando la City.
Questo spiega la battaglia furente del premier britannico Cameron per la possibile nomina di Jean-Claude Juncker a capo della Commissione europea. Pare chiaro che Cameron sia cosciente che gli alleati americani stanno giocando su più piatti europei: da una lato, la conclusione del Ttip (affidato al Regno Unito, che infatti reclama il Commissario al Commercio); dall’altro, la garanzia della continuazione della dominanza del dollaro sull’euro (affidato alla Germania austera e rigorista). Intanto, in modo consapevole o meno, il drappello degli euroscettici ed eurocritici fanno buon gioco ai fautori del piano B.
Eccezione molto sorprendente è l’Italia. L’abilissimo giovane premier, Matteo Renzi, ha dato prova di essere un esperto di tattica veloce (oltre a essere un bravo oratore). Con l’abilità del coccodrillo, azzanna dove può senza esporsi a ritorsioni (almeno per ora). Tra Matteo e Angi non è scoppiato amore a prima vista, ma certo un’intesa di scopo c’è. Questa si traduce in un salvifico viatico populista che la Germania ha consegnato a Parigi e Roma per permettere a quei governi di restare sotto l’egemonia teutonica dando una qualche soddisfazione di facciata ai propri cittadini.
Che le regole non si cambino è cosa certissima. Invece, in base ai progressi delle riforme – cioè del grado di maggiore compatibilità con l’egemone – si pospongono gli obblighi sottoscritti in materia fiscale e di bilancio. Quanto basta per far dichiarare vittoria a Renzi e Hollande. Il tutto è inzeppato di corollari retorici sulla crescita, la creazione di posti di lavoro, e il pattugliamento del Mediterraneo. Annunci utilissimi per chi deve governare in paesi grandi e difficili, dove oltre i due terzi della popolazione non gradiscono affatto i governanti: nel caso italiano, al netto delle astensioni, il peso politico reale del Pd è di circa il 22%; in Francia, la situazione è invece pre-rivoluzionaria, con un Ps terzo partito in basso dopo il blocco conservatore (Ump) e reazionario (Fn).
In conclusione, l’Europa sta decidendo in un tempo molto difficile. Non sa bene dove vuole andare ma cerca di non implodere. Molto della tenuta del sistema dell’Unione europea dipenderà dalle decisioni di quei “signori”, che per ora sono ancora in una guerra aperta tra loro. Una cosa è sicura: l’Unione europea non siede al tavolo delle oligarchie che decideranno del nostro futuro, più prossimo che venturo.