Il prossimo 31 marzo 2009 la Corte Costituzionale prenderà in esame una serie di questioni sollevate da diversi Tribunali e riguardanti la costituzionalità della legge n. 40 del 2004 che ha disposto le “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”.
Le ragioni per cui alcuni giudici dubitano della costituzionalità di questa legge sono molteplici, ma con queste brevi osservazioni vorremmo soffermarci su quelle che sembrano essere le questioni centrali.
La legge del 2004, com’è noto, ha introdotto una specifica disciplina per regolare l’accesso delle coppie alle tecniche della procreazione medicalmente assistita.
Uno dei punti controversi in questa regolazione è l’art. 14 laddove prevede che «le tecniche di produzione degli embrioni, tenuto conto dell’evoluzione tecnico-scientifica e di quanto previsto dall’articolo 7, comma 3, non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre».
Questa disposizione sarebbe, a detta dei giudici remittenti, irragionevole perché limiterebbe il numero massimo degli embrioni impiantabili, quando invece potrebbero occorrerne di più per ottenere quello che si sostiene essere lo scopo della legge: ottenere la gravidanza.
Ci troveremmo, quindi, di fronte ad un caso classico di irragionevolezza sotto il profilo dell’eccesso di potere legislativo, quando, cioè, la legge predispone mezzi intrinsecamente contraddittori con il fine che vuole raggiungere.
Queste ragioni di incostituzionalità sono del tutto inconsistenti sia con riferimento al presunto fine della legge, sia alla adeguatezza dei mezzi.
1. La procreazione medicalmente assistita non è una cura
Il fine della legge 40 del 2004 non è quello di curare una malattia e conseguentemente quello di garantire un diritto alla riproduzione assistita per la donna come espressione del suo diritto costituzionale alla salute. In realtà, se così fosse, allora si potrebbe sostenere che la limitazione a tre degli embrioni è irragionevole ogniqualvolta un numero maggiore di embrioni rendesse più probabile una gravidanza sana per la madre (numero maggiore, giacché la legge consente di creare ed impiantare meno di tre embrioni).
Ma così non è.
Sono molteplici le ragioni – la maggior parte delle quali assolutamente autoevidenti – per cui non si può pensare che la legge 40 abbia inteso la disciplina di una terapia per una malattia.
Basta scorrere gli articoli della legge, a partire dal primo, per capire che la legge 40 intende favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o infertilità attraverso un mezzo – la creazione di un embrione ed il suo impianto – che interviene solo quando «non ci siano terapie» efficaci a rimuovere le cause della sterilità o infertilità. È infatti del tutto intuitivo comprendere che, se uno o l’altro partner di una coppia hanno problemi riproduttivi, la procreazione medicalmente assistita (PMA) non li “cura” in nessun modo, non agisce sulle cause rimuovendole, ma consente di procreare un figlio attraverso una modalità medicalmente assistita.
Non si può in alcun modo dire che la creazione dell’embrione è un mezzo di cura; questo contrasterebbe non solo con tutti i principi di civiltà, ma con le norme della legge (art. 1) che assicura i «diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito».
Questa è la ragione sostanziale assorbente per la quale tutti i rilievi di costituzionalità presentati sono radicalmente infondati: non si può impugnare gli articoli 6, 13 o 14 senza logicamente attaccare contemporaneamente l’art. 1 e tutto l’impianto della legge.
Le questioni poste dai giudici nel ritenere incostituzionali gli articoli 6, 13 e 14, muovono tutte da un clamoroso errore di interpretazione; questi articoli, infatti, sono tutti espressivi e consequenziali con la ratio stessa della legge, ragion per cui annullare questi articoli e lasciare intatti gli articoli 1, 2, 3 e 4, ad esempio, sarebbe operazione del tutto inutile e produrrebbe un risultato, questo sì, del tutto irrazionale come la stessa Corte ha avuto modo di dire con riferimento ad una precedente questione che le era stata sottoposta su questa legge. Ma, d’altra parte, attaccare i principi basilari vorrebbe dire, come effetto pratico, annullare la legge nella sua generalità (finalità che, lo si capisce dalla lettura degli atti, è probabilmente quella realmente perseguita dai giudici, ma che è stata già considerata impossibile sul piano costituzionale ancora una volta dalla Corte in una sua precedente decisione con cui ha respinto l’ammissibilità del referendum abrogativo totale della legge; di qui la scelta di alcuni articoli).
Vogliamo limitarci ad illustrare qualche motivo per cui è assolutamente chiaro che la legge 40 non considera la PMA una terapia finalizzata alla cura di una malattia.
A) In primis, l’ ipotizzata terapia dovrebbe consistere nella creazione di un soggetto di diritti: l’embrione. Tutti conosciamo il dibattito difficile e controverso sulla natura giuridica dell’embrione, ma nessuno sino ad oggi, neppure chi ha difeso le tesi più estreme e libertarie, ha mai considerato un embrione al pari di un medicinale
B) Se la PMA fosse una terapia o un diritto non si vede perché la disciplina graduale nella sua somministrazione: perché solo quando sono state previamente percorse tutte le altre soluzioni (art.4)? Perché alla coppia dev’essere prospettata la possibilità di ricorrere all’adozione o all’affidamento come alternative alla PMA (art. 6)?
C) Ma soprattutto: se la PMA fosse davvero una terapia e quindi, parallelamente, un diritto della donna ad ottenere l’impianto di un embrione, perché il divieto di PMA eterologa (art. 4)? L’esclusione del ricorso a donatori esterni restringe in maniera drastica la possibilità dell’accesso e di riuscita.
Se stessimo discutendo del diritto costituzionale alla salute della donna tutte queste limitazioni sarebbero altrettanto irragionevoli, ma non lo sono per la chiara ragione che la legge non ha questo scopo né si occupa di questo
D) E veniamo al punto cruciale. Se la PMA fosse una terapia ovvero un diritto della donna ad ottenere l’impianto perché (art. 5) possono accedere alla tecnica solo «coppie, maggiorenni, di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi»? E’ evidente che tutte queste rappresenterebbero limitazioni assurde ed odiose se stessimo parlando di somministrare un medicinale ad una persona per guarire una sua malattia. Sono invece condizioni del tutto ragionevoli se pensiamo al fatto che creando uno o più embrioni ed impiantandoli stiamo generando una nuova persona i cui diritti debbono essere tutelati assieme a quelli della madre e del padre.
E) Ed allo stesso modo si spiega l’inconsistenza dell’altra accusa di incostituzionalità che viene fatta alla legge: sarebbe infatti contro la Costituzione la norma che non consente alla coppia o alla donna di ritirare il consenso all’impianto dopo la fecondazione dell’ovulo (art.6).
Certamente, se ci trovassimo dinanzi ad un trattamento sanitario, una disposizione del genere sarebbe problematica rispetto ai i principi del consenso informato o del divieto di trattamenti sanitari obbligatori.
Ma ancora una volta così non è.
Innanzitutto, se muoviamo dagli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge – cioè dalla sua ratio – si comprende benissimo che, una volta creato l’embrione, non ci siamo limitati a produrre un medicinale che, se non utilizzato, possiamo smaltire.
Ma, in secondo luogo, è assolutamente chiaro che la legge proprio per l’esigenza di questi delicatissimi bilanciamenti, non ha previsto alcuna sanzione afflittiva o punitiva né, tanto meno, alcuna forma di esecuzione coattiva dell’impianto in caso di revoca del consenso.
E’ un caso classico di norma imperfetta (come la si definisce nei manuali di diritto) che prescrive il comportamento che dovrebbe essere seguito sulla base dei principi che essa stessa pone, ma che in caso di inadempimento non predispone alcuna conseguenza, ché ovviamente sarebbe lesiva della libertà e della dignità della donna. Anche qui, dunque, sul piano interpretativo non c’è alcun contrasto con la Costituzione, ma solo il totale fraintendimento da parte dei giudici da cui deriva la completa assenza di rilevanza della questione. Nessuna donna potrebbe essere condannata ad una multa né tanto meno ad una esecuzione coattiva nel caso in cui, dopo aver fecondato l’ovulo, non intenda sottoporsi all’intervento.
E’ dunque una interpretazione errata ed in ogni caso non applicabile a nessun caso concretamente in discussione.
2. Perché è bene porre dei limiti
Ma la ragionevolezza delle limitazioni poste dalla legge 40 non solo è chiaramente dimostrata, sol che si comprenda esattamente lo scopo della legge stessa; in realtà sono la stessa scienza e la tecnica della medicina riproduttiva a richiedere una limitazione – spesso anche inferiore ai tre embrioni – al fine di garantire il buon esito dell’impianto.
Su questo punto basti far riferimento alle linee guida elaborate dalla “Human Fertilisation and Embryology Authority” inglese, l’Autorità indipendente che sovrintende all’applicazione delle tecniche di riproduzione medicalmente assistita nel Regno Unito.
Nonostante il sistema legale inglese sia notoriamente molto più permissivo e “liberale” nei confronti di tali tecniche, le linee guida elaborate da questo organismo prevedono il trasferimento di non più di due embrioni nella generalità dei casi e di massimo tre embrioni solo nel caso di donne ultraquarantenni (cfr. www.hfea.gov.uk/en/664.html).
Questo per il motivo, ben noto ai tecnici, che «la gravidanza multipla è il fattore di rischio più grave per la madre e per il figlio nei casi di PMA» (www.hfea.gov.uk/en/1726.html); dal primo gennaio 2009 l’Autorità inglese ha deciso di diminuire drasticamente la percentuale delle gravidanze multiple scegliendo addirittura la “Single Embryo Transfer policy”.
E’ dunque dai presidi più avanzati della evoluzione tecnico-scientifica che viene l’indicazione di porre tetti massimi ed invalicabili al trasferimento degli embrioni. Si guardi la denuncia apparsa sul magazine internazionale Newsweek, dopo la vicenda della madre single che dopo una prima gravidanza multipla ottenuta seguito di PMA (6 figli) ha recentemente procreato, sempre a seguito di PMA, altri otto figli; denuncia intitolata, significativamente: «Procreazione Assistita: la maggior parte delle cliniche della fertilità non rispetta le regole» (www.newsweek.com/id/185689/output/print).
Non vi è dunque alcuna irragionevole limitazione, neppure se si considerasse lo scopo della legge puramente e semplicemente consentire interventi di PMA.
Il rischio, infatti, delle gravidanze multiple è quello che abbassa drammaticamente la percentuale dei successi, in termini di salute per la madre e per il figlio.
3. Conclusioni
In conclusione, la questione che tra pochi giorni si aprirà dinanzi alla Corte costituzionale nasce da un duplice palese errore di interpretazione da parte dei giudici.
Da un lato, essi ragionano come se lo scopo della legge 40 /2004 fosse quello di predisporre la cura o la terapia per una malattia o un disturbo. La PMA non cura né rimuove alcuna malattia, né tanto meno la sterilità o l’infertilità.
La legge 40 nella sua totalità, anche attraverso gli articoli 6, 13 e 14 che sono stati impugnati, invece regolamenta un complesso procedimento, in cui, attraverso l’applicazione di tecniche mediche si da’ vita ad embrioni, soggetti di diritti destinati, se l’impianto ha successo, a diventare persone.
Dall’altro, i giudici rimettenti ritengono che lo scopo della legge sia quello di massimizzare il numero di embrioni da creare e trasferire perché così – secondo grave errore di valutazione – si faciliterebbero le gravidanze sane e vitali. Così non è, come le stesse Autorità indipendenti in materia di medicina riproduttiva affermano.