Caro direttore,
Alla vigilia del voto europeo ti vorrei confidare alcune mie impressioni sull’Italia di oggi, quella del 2014. Lo faccio con una lettera, perché di quello che scrivo vorrei assumere l’intera responsabilità, senza coinvolgere la testata del giornale. Parafrasando Mao, ciò che si può dire sull’Italia di oggi è che “grande è la confusione sotto il cielo”. Ma, al contrario del cosiddetto “grande timoniere”, non si dovrebbe concludere non con “quindi, tutto va bene”, ma con un “tutto va male”.
Non si può parafrasare un’altra frase dell’ex leader della “Grande marcia”: “sparate sul quartiere generale”, perché non si riesce bene a comprendere chi realmente comandi in un Paese come il nostro, che pare retrocesso, in troppe circostanze, a virulente dispute feudali (l’ultima vicenda della procura di Milano e le “sgridate” della Corte di Cassazione alla Corte costituzionale sul caso Abu Omar, tanto per citare due casi) e quindi a una molteplicità di sedicenti “quartieri generali”.
Non esiste più un’emergenza italiana, ma una inquietante somma di emergenze che investono la drammatica questione economica, una contorta crisi istituzionale, l’evanescenza di una classe dirigente in generale, soprattutto nella sua rappresentanza politica.
Si può osservare che la crisi economica ci è arrivata per esportazione dagli Stati Uniti nel 2007. Ma si può aggiungere che anche noi ci abbiamo messo qualche cosa del “nostro”. Mentre il 4 agosto del 2007, il “profeta alla rovescia”, professor Francesco Giavazzi, scriveva sul Corriere: “La crisi del mercato ipotecario americano è seria, da qualche settimana ha colpito anche le Borse, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata”, noi avevamo già mosso i nostri passi dopo il 1992 con una spinta alla finanziarizzazione, con una colossale svendita del nostro apparato produttivo statale (per fare cassa), con una raffica di privatizzazioni senza liberalizzazioni, stravolgendo in questo modo l’originalità dell’economia italiana, che avrebbe dovuto essere corretta, in tempi e scadenze soppesate, e non appunto stravolta, per stare al passo con “le mode e i tempi” e soprattutto in ossequio agli interessi delle banche d’affari anglosassoni.
Si può poi dire che è dagli anni Ottanta del Novecento che in Italia si sente l’esigenza di una riforma istituzionale.
Il nobile e funzionale compromesso ottenuto nell’immediato dopoguerra con la Costituente avrebbe dovuto necessariamente essere cambiato, adattato a una nuova fase storica che non aveva più come scenario quello della “guerra fredda” e del mondo bipolare. Eppure, chi in quegli anni si azzardava a parlare di riforme istituzionali veniva raffigurato come precursore di una svolta autoritaria, di un regime. E questo è durato fino a oltre la metà degli anni Novanta, quando è abortita malamente la famosa Commissione Bicamerale. Il risultato è che, al momento, mentre si parla e si litiga di abolizione del Senato, non si riesce ancora a trovare un accordo sulla legge elettorale.
Si può infine osservare per venire alla drammatica terza emergenza, che la classe politica della prima repubblica, dopo l’implosione dell’Urss, era entrata probabilmente in una sorta di fatalistico letargo. Sconfitto storicamente il comunismo, molti si erano abituati a pensare che l’Italia avrebbe fatto le sue riforme in tutta tranquillità e sarebbe approdata a un sostanziale bipolarismo. Fu un errore fatale. L’ingresso degli ex comunisti nell’Internazionale socialista europea fu quasi sponsorizzato da Bettino Craxi. Certamente, in quegli anni, occorreva operare una svolta di sistema, modificarlo, aggiornarlo, anche nei suoi aspetti più fastidiosi di intreccio tra affari e politica, di collusione tra grande impresa (privata e pubblica) e partiti, di finanziamento e di autofinanziamento dei partiti. Occorreva una “grande confessione”, come spiegava il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, era necessaria una riforma.
Che cosa si scelse invece ? L’azzeramento di cinque partiti democratici per via prevalentemente giudiziaria, con il conseguente discredito per tutta la rappresentanza politica. E nello stesso tempo si assistette a un tentativo maldestro di dare una “continuità comunista” sotto altro nome al vecchio Pci. Mentre l’Italia si divideva tra “quella degli onesti” e “quella dei disonesti”, non ci fu nessuno del gruppo dirigente comunista che ammise un fatto semplicissimo: abbiamo sbagliato. E non era un delitto avere creduto nella Rivoluzione d’Ottobre, ma diventava un errore politico enorme, anche in Italia, dare una continuità storica a un movimento internazionale che era diventato “il passato di un’illusione” e si era afflosciato su se stesso.
Oltre a questo, quelli che realizzavano l’azzeramento della classe politica e sorvolavano sulla storia del Pci, non avevano pronto neppure una “riserva” valida, un’alternativa credibile di governo. Chissà di chi è veramente merito la vittoria di Berlusconi del 1994: delle televisioni o dell’incapacità politica del centrosinistra capitanato dall’anticapitalista ed ecologista Achille Occhetto?
Comunque, con l’azzeramento, in definitiva si buttò via “l’acqua sporca con il bambino”. E così per venti anni si è cresciuti in un’Italia di improvvisatori e di dilettanti allo sbaraglio, mentre il Paese retrocedeva in tutte le classifiche di credibilità politica ed economica. L’effetto disgregante del Paese comincia da quell’azzeramento e da quell’ormai quasi “mitico” 1992. Il “dies irae” di Tangentopoli.
Ora, caro direttore, tu conosci benissimo le mie idee. Sono stato un “figlio” politico del Giorgio Amendola del 1964, quello del partito unico della sinistra, e poi sono stato un craxiano, per nulla pentito. Quindi le mie analisi possono essere condizionate, certamente, da quello che ho vissuto. Credo di non averti mai nascosto la mia nostalgia per la prima repubblica e, per paradosso, in questi tempi di strane acrobazie diplomatiche americane e per una certa visione “bottegaia” in politica estera della signora Angela Merkel, ripeto, per paradosso, mi è venuta persino nostalgia della “guerra fredda”. Forse è solo una scusa per rileggere i primi grandi libri di John Le Carrè.
Ma fatte queste precisazioni per “sciogliere il ghiaccio”, lasciami ritornare al fattore disgregazione. Prima di morire il 19 gennaio 2000 a Hammamet e di avere poi funerali di Stato (italiano, in Tunisia), ufficialmente latitante (credo che sia una sintesi politica unica nella storia), Bettino Craxi mi aveva parlato molte volte al telefono e nel novembre del 1998 fui suo ospite per due giornate a Hammamet. Tra pranzi e cene, tra passeggiate e soste nei bar, Craxi ripercorreva il suo percorso politico non senza fare anche autocritiche, ma si concentrava soprattutto sul futuro dell’Italia. Fu proprio Craxi in quella fine del 1998 a spiegarmi l’effetto di disgregazione che stava, lentamente e inesorabilmente, subendo il Paese sul piano politico e anche economico. Ma insisteva soprattutto sul pericolo di una rottura istituzionale, su una lotta tra poteri “deboli e anarchici” che non tenevano conto del sistema Paese.
Mi anticipò in modo impressionante quello che sarebbe avvenuto in questi ultimi quindici anni, con il rischio di una retrocessione internazionale dell’Italia, con un assetto istituzionale obsoleto e con grandi poteri economici internazionali che avrebbero fatto “tabula rasa” della politica, soprattutto in Italia.
Ho letto e riletto spesso gli appunti che presi in quelle lunghe conservazioni, mi sembravano dettate da una grande amarezza, da un grande dolore. Oggi devo dire che mi sono sbagliato, perché Bettino Craxi ha azzeccato quasi tutto quello che è accaduto in questi anni. E l’effetto disgregante che lui vedeva era soprattutto il frutto di una mancata grande “operazione di verità” sul Paese e su quello che era avvenuto durante gli anni della prima repubblica.
Fin dai tempi dell’Università, Craxi veniva sopranominato il “faraone”, non ricordo bene per quale ragione precisa. Quando divenne un potente della politica, spesso si ricorreva alla frase “Occhio alla vendetta del faraone”. Rileggendo quegli appunti in questi giorni mi è ritornata in mente quella frase e guardando la situazione del Paese mi è venuto qualche brivido lungo la schiena.
Caro direttore, non so proprio come possa andare a finire. Non ho perso e non voglio perdere la speranza che il “faraone” non si vendichi, anche perché amava molto l’Italia. Certo, il quadro politico, per usare formule di altri tempi, è quello che è. Quando penso al mitico 1992 e lo paragono a oggi mi viene in mente sempre l’incipit di un libriccino di Carlo Marx “Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte”. Scriveva Marx: “Hegel osserva in un punto delle sue opere che tutti i grandi fatti delle storia del mondo e i loro personaggi, compaiono per così dire a due riprese. Egli ha dimenticato di aggiungere: la prima volta in tragedia, la seconda in farsa”.
In questo noi italiani saremmo imbattibili: un comico o un ex comico, ce l’abbiamo già.
Grazie dello spazio e della cortesia,
Gianluigi Da Rold