Il fallimento del negoziato di Ginevra del WTO era nell’aria; da troppo tempo le trattative procedevano a rilento e troppi erano gli elementi di criticità che dividevano i principali protagonisti. Anche l’ultima proposta di Pascal Lamy, che nel week end sembrava avere qualche possibilità di successo, ha suscitato numerose perplessità ed è naufragata nel giro di poche ore.
Nel 2000 il WTO ha lanciato un round di negoziazione per ridurre i dazi e le barriere al commercio di beni e servizi. Questo round di negoziazione era incentrato sui temi cari ai paesi in via di sviluppo, tra cui i prodotti agricoli, tanto è vero che è stato chiamato “development round”. I negoziati si sono rivelati tuttavia subito difficili e complessi e si sono bloccati nel 2003 nel meeting di Cancun, dove i PVS hanno abbandonato le trattative definendo inadeguate le proposte dei paesi avanzati in tema di agricoltura. I prodotti agricoli costituiscono uno dei punti più critici del negoziato. Come è noto i paesi ricchi, in particolare Europa ed USA, proteggono i propri mercati agricoli con dazi e tariffe all’importazione ed al contempo erogano sussidi ai propri agricoltori. L’esito è una situazione penalizzante per i paesi in via di sviluppo, che da una parte hanno un accesso limitato ai mercati europei e americani, e dall’altra vedono i prezzi internazionale dei prodotti agricoli depressi della produzione sussidiata dei paesi ricchi.
Le cause sono molteplici. Esiste il classico problema di tutte le riforme: in questo caso come in altri si tratta di scambiare costi attuali certi con potenziali benefici futuri. Non sempre i policymakers sono sufficientemente lungimiranti da accettare lo scambio. Sotto questo profilo i paesi avanzati hanno perso una grossa occasione: è infatti più semplice ridurre o eliminare i sussidi ai produttori agricoli in una fase come quella attuale in cui i prezzi agricoli sono elevati.
C’è tuttavia un duplice problema di fondo: da una parte il fallimento del negoziato è lo specchio di un mondo che sta rapidamente cambiando stravolgendo gli schemi che hanno regolamentato le relazioni internazionali negli ultimi 30 anni. La divisione tra paesi avanzati e PVS non ha più senso e alcuni paesi emergenti (i cosiddetti BRIC) si stanno ritagliando uno spazio rilevante nelle relazioni internazionali, potendo contare su un maggiore potere contrattuale nei confronti dei paesi ricchi.
Dall’altra il modello di trattativa del WTO ha mostrato tutti i suoi limiti. Tra le istituzioni internazionali, infatti, il WTO è quella sulla carta maggiormente democratica: non vi sono consigli di sicurezza (come nelle Nazioni Unite) o azionisti di maggioranza (come nel FMI o nella Banca Mondiale), semplicemente ogni nazione ha un voto, il Ghana conta come gli USA. Questa maggiore partecipazione democratica ha tuttavia un costo: la lentezza del processo decisionale. Al fine di essere approvati gli accordi commerciali devono infatti essere realmente multilaterali: applicati a tutti i paesi membri e accettati da tutti. Questo sistema ha funzionato abbastanza bene nell’organismo precursore del WTO, il GATT, per tre motivi: i paesi coinvolti erano di meno, gli argomenti oggetto di negoziazione erano meno sensibili (l’agricoltura è stata inclusa nell’agenda dei negoziati solo con l’Uruguay Round) e gli assetti geopolitici erano relativamente stabili (paesi avanzati vs paesi in via di sviluppo; primo vs secondo e terzo mondo). Ora questi motivi sono venuti meno e ci siamo trovati con un’istituzione che deve lavorare per trovare un accordo tra tanti paesi, diversi tra loro, su argomenti sensibili, in più all’interno di un quadro congiunturale economico e politico fortemente instabile. È logico che tutto ciò sia difficile da realizzare e suggerisce che forse questo fallimento può essere l’occasione per prendere atto dell’inadeguatezza del modello attuale e per avviare una seria riforma delle regole e delle istituzioni che governano il commercio internazionale.
Quali le conseguenze?
Quali conseguenze produrrà il mancato accordo per i cittadini? Questo è un aspetto fondamentale ed al tempo stesso difficile da definire. Infatti i cittadini non avranno un immediato costo tangibile (nel senso di maggiori tasse o prezzi più elevati per alcune categorie di prodotti), piuttosto perderanno i potenziali guadagni derivanti dal commercio. Per rendersene conto è sufficiente pensare agli effetti dell’ingresso nel WTO di alcuni paesi asiatici ed in particolare della Cina. Noi siamo abituati a considerare gli effetti negativi sui nostri produttori derivanti dalla concorrenza dei prodotti asiatici. Tuttavia, se ci pensiamo bene, è proprio grazie a questa concorrenza che possiamo beneficiare di prezzi estremamente bassi per i beni importati: si pensi ai prodotti elettronici, alle attrezzature sportive ecc. Le conseguenze del fallimento del negoziato devono essere lette in questa prospettiva: meno concorrenza e meno potenzialità di riduzione dei prezzi.
Quale la via da seguire?
Non dobbiamo essere pessimisti. Le tendenze di lungo periodo parlano chiaro: il commercio è uno dei fattori più stabilmente e fortemente associati alla crescita economica. I paesi che crescono di più sono in media anche quelli che commerciano di più. La fase di riduzione delle barriere allo scambio è iniziata molti anni fa dopo la fine della seconda guerra mondiale ed è perseguita con alti e bassi ininterrottamente. In questa prospettiva l’attuale fallimento deve essere visto come uno stop temporaneo in un percorso già avviato. Ciò non significa che il commercio non abbia costi, tuttavia questi sono mediamente inferiori ai potenziali benefici, si tratta in sostanza di disegnare le politiche e gli accordi commerciali di modo da compensare i soggetti penalizzati. Questo è l’aspetto più drammatico del mancato accordo di Ginevra: con esso i paesi coinvolti hanno rinunciato a ridisegnare le regole e le politiche del commercio, perdendo l’ennesima occasione per definire un assetto istituzionale che favorisca uno sviluppo maggiormente equilibrato, e soprattutto centrato sulle popolazione più povere.