Il dato congiunturale rilevato dall’Istat di un Pil italiano che nel secondo trimestre 2008 diminuisce dello 0,3% rispetto al trimestre precedente (rimanendo peraltro sostanzialmente identico rispetto al secondo trimestre 2007) si aggiunge ai tanti recenti segnali che indicano il possibile avvicinarsi di un periodo di recessione in Europa. Basterà qui soltanto ricordare che in giugno gli ordini all’industria tedesca sono scesi del 2,9%, mentre in Spagna la produzione industriale è caduta addirittura del 9,5%.
Tutto questo dimostra che i problemi di crescita dell’Italia non derivano affatto da un sistema produttivo inefficiente o attardato su produzioni mature, come purtroppo sentenzia ancora qualche economista nostrano ammalato di esterofilia, ma discendono piuttosto da un sistema Paese che non riesce, in termini di efficienza delle infrastrutture e dell’amministrazione pubblica, ad essere all’altezza di un sistema imprenditoriale che è invece vivo e vitale. Bene ha fatto quindi recentemente il ministro Tremonti a ricordare come la gran parte delle nostre imprese, dopo aver superato i contraccolpi delle nuove condizioni competitive createsi in seguito all’ingresso nello scenario internazionale di due colossi come Cina ed India, sia stata capace di ristrutturarsi e ammodernarsi imboccando un sentiero di sviluppo caratterizzato da innovazione e internazionalizzazione.
Ma la contraddizione di un Paese che non cresce pur avendo imprese leader sui mercati internazionali capaci di produrre un export straordinario va ricercata anche in una cultura negativa che ha sostanzialmente dominato il nostro Paese in tutto il periodo postbellico e di cui solo oggi si cominciano forse ad intravedere – fortunatamente – i primi segnali di attenuazione. L’Italia è infatti un Paese che negli ultimi 50 anni ha vissuto un eccesso di statalismo che è andato di pari passo con varie forme di consociativismo (tra governo e sindacati, tra sindacati e imprenditori, e via discorrendo).
Nella prefazione di questo documento si esplicita l’intenzione di «riproporre la centralità della persona, in sé e nelle sue proiezioni relazionali a partire dalla famiglia»,e si indica come obiettivo un modello«di Welfare delle opportunità che si rivolge alla persona nella sua integralità, capace di rafforzarne la continua autosufficienza perché interviene in anticipo con una offerta personalizzata e differenziata, stimolando comportamenti e stili di vita responsabili, condotte utili a sé e agli altri. Un Welfare così definito si realizza non solo attraverso le funzioni pubbliche ma soprattutto riconoscendo, in sussidiarietà, il valore della famiglia, di tutti i corpi intermedi e delle funzioni professionali che concorrono a fare comunità».
Nell’analisi delle relazioni tra Stato, società e mercato ci si lamenta spesso, qualche volta a ragione, più frequentemente per dogmatismo culturale, della mancanza di mercato che affliggerebbe il nostro Paese. Una tale riflessione rischia però di essere insufficiente quando non addirittura controproducente perché quello di cui il nostro Paese ha soprattutto bisogno è che ci sia meno Stato (che in Italia ha sempre fatto troppo e inefficientemente) e più società (la cui promozione come soggetto attivo è stata sempre rinviata quando non ostacolata).