La vittoria del No nel referendum tra i lavoratori Alitalia per il nuovo contratto apre scenari estremamente inediti, al di la delle dichiarazioni rese sia da politici che sindacalisti alla sua vigilia. Abbiamo commentato il risultato con Davide Carovana, Presidente nazionale del sindacato confederale naviganti aerei Confael-Assovolo.
Che significato assume questo risultato?
Come Confael Assovolo non possiamo che essere soddisfatti della vittoria del No: siamo fieri di rappresentare dei lavoratori che hanno saputo vincere la paura, malgrado le dichiarazioni di autorevoli membri del governo, e hanno votato secondo coscienza senza farsi condizionare. Abbiamo sempre detto che questo piano industriale è insufficiente a rilanciare la compagnia, e che sarebbe stato utile solo a ritardare di qualche mese un default inevitabile senza massicci investimenti. Chi fa gli interessi dei lavoratori deve sapersi assumere le responsabilità connesse al proprio ruolo, e non scaricarle sui propri iscritti, cercando una legittimazione a continuare una trattativa a perdere sulle basi di un verbale di confronto tanto vago quanto minaccioso.
Che cosa non vi convinceva?
Per noi è sempre stato chiaro che non si trattava di fare un piccolo sacrificio (l’8% che la propaganda sindacale e governativa ha sostenuto con la grancassa dei media allineati), ma di rinunciare ad almeno il 20-25 per cento del salario a fronte di una maggiore produttività e di minori diritti, il tutto per finanziare con i nostri salari le buonuscite milionarie di amministratori e manager inadatti a operare nel contesto europeo. I lavoratori ci hanno seguito, e di questo li ringraziamo: adesso comincia la lotta per riaffermare la centralità del lavoro dei naviganti e degli operatori aeroportuali per il rilancio della compagnia, contrapposta agli interessi della finanza sostenuti dalla politica.
Come nel 2009 la vertenza Alitalia ha un valore epocale soprattutto per il ruolo del sindacato. Cosa è emerso dal contesto attuale?
Le sigle firmatarie hanno subito una sonora sconfitta, malgrado – o anche a causa di – una campagna referendaria ambigua: i lavoratori hanno bocciato con il loro No anche un certo modo di fare sindacato, basato sulla cogestione più che sulla difesa dei diritti dei lavoratori. La storia di questi ultimi dieci anni, segnata da due fallimenti e altrettanti piani di ristrutturazione a base di licenziamenti, tagli salariali e normativi, ha insegnato a tutti che questa ricetta è inefficace, e porta solo a successive crisi aziendali e ulteriori lacrime e sangue. Ci auguriamo a questo punto che tutti ne prendano atto, anche ai piani alti delle confederazioni, e si possa finalmente tornare a vedere un sindacato che si faccia portatore delle istanze e dei diritti dei lavoratori, piuttosto che limitarsi a gestire il dissenso all’applicazione di ricette neoliberiste imposte da manager preoccupati più delle loro buonuscite milionarie che dell’effettiva gestione efficace delle aziende.
A questo punto si rende urgente una revisione di un accordo che all’inizio vedeva contrarie anche le dirigenze dei sindacati confederali. Cosa si può fare?
Vede, per noi si tratta di un copione già visto: al principio i sindacati tuonano contro le responsabilità del management, e giurano che non saranno i lavoratori a dover pagare il prezzo della crisi. Poi nelle segrete stanze delle trattative scendono a più miti consigli, intervengono i segretari confederali, e con le minacce o con le blandizie provano a far digerire ai lavoratori tutti i sacrifici di volta in volta decisi dalle aziende. La risposta dei lavoratori richiede rispetto da parte di tutti, non può essere derubricata a un capriccio di pochi incoscienti viziati. Il messaggio che ne discende è chiaro: i risparmi vanno conseguiti riducendo gli sprechi che sono facilmente individuabili nel bilancio aziendale.
Per esempio?
Gli azionisti devono pretendere la revisione immediata di tutti quei contratti di fornitura che penalizzano Alitalia con costi superiori del 30-40 per cento rispetto alle medie di mercato. I manager che non sono stati in grado di portare l’azienda in attivo come promesso devono essere sostituiti con altri professionisti del settore, magari scelti con un bando internazionale, ed essere chiamati a rispondere del danno originato dalla loro gestione, altro che buonuscita. Allo stesso tempo, la politica deve decidere se l’Italia può permettersi di appaltare all’estero l’intero settore del trasporto aereo, attraverso le low cost lautamente finanziate dal denaro pubblico degli enti locali, oppure se trovare gli strumenti per investire in una compagnia di bandiera nazionale, cui sia consentito di competere ad armi pari sul mercato, come avviene in tutti i grandi paesi europei, Germania e Francia in primis.
“L’Alitalia volerà alto” disse l’ex primo Ministro Renzi alla presentazione di Etihad come socio di Alitalia. Invece si è trattato dell’ennesimo disastro. Da cosa è dipeso, valutando anche che le redini del gioco le aveva una compagnia aerea in grande espansione e con ingenti capitali finanziari e di aeromobili?
Come dicevo, una grande responsabilità in questo “disastro” spetta alla politica, che non è stata in grado di disegnare un sistema di trasporti integrato ed efficiente per il nostro Paese, razionalizzando gli aeroporti, sviluppando le linee ferroviarie ad alta velocità, lasciando prevalere interessi elettorali e campanilistici e condannando così il trasporto aereo a fare concorrenza a quello ferroviario, e i vari aeroporti a competere fra di loro per attrarre passeggeri. Quanto al ruolo di Etihad, possiamo solo dire che è venuta in soccorso di Cai con una modesta iniezione di liquidità a fronte della quale ha acquisito gli ultimi gioielli di famiglia (slot su Heathrow, Alitalia Loyalty).
Dunque il vostro è un giudizio negativo anche su Etihad?
Sotto la sua gestione sono stati autorizzati investimenti improduttivi quali le nuove divise e le nuove livree, mentre l’ampliamento della flotta è stato molto limitato. Si può dire che sia stato buttato fumo negli occhi degli altri azionisti per nascondere un reale depauperamento della compagnia, mentre veniva imposto uno stile di relazioni industriali di stampo mediorientale che ha generato solo malcontento e divisioni fra i lavoratori. Probabilmente se Cai avesse esercitato un maggior controllo sula gestione invece di affidarsi in toto agli uomini Etihad la situazione di bilancio non sarebbe degenerata fino a questo punto.
(Guido Gazzoli)