S&P taglia le stime di crescita 2018 dell’Italia all’1,3% e l’Istat, oltre a segnalare un’economia in rallentamento, dagli ordini all’export, lancia l’ennesimo allarme: un terzo degli italiani è a rischio povertà. Per l’Italia diventa sempre più urgente intervenire per dare una svolta, pur mantenendo i saldi di bilancio. E proprio ieri è stata ventilata l’ipotesi, maturata in un vertice interministeriale tra titolari di dicasteri che si occupano di materie europee, di chiedere alla Ue la possibilità di stralciare dal rapporto deficit/Pil le riforme fiscali (leggasi flat tax) e le misure a sostegno del reddito (cioè il reddito di cittadinanza). Bruxelles accetterà questa impostazione? “Premesso che si tratta di una proposta che sta in piedi e che ha una notevole rilevanza – risponde Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano – non sono ottimista sull’accoglimento da parte dell’Europa”.
Perché?
La questione vera è che dobbiamo tenere presenti due aspetti: da un lato, il decoupling tra crescita – anemica, val sempre la pena ricordarlo – dell’economia italiana e andamento della povertà e delle diseguagliaqnze; dall’altro, dobbiamo ricordare un numero, di cui poco o quasi mai si parla, ma che in Europa riporteranno a galla, e che possiamo sintetizzare così: sì, è vero – ci diranno a Bruxelles – avete questa situazione economica difficile e questi squilibri, ma il vostro rapporto tra ricchezza privata e Pil è elevatissimo. Ecco il numero: oggi l’ordine di grandezza di quel rapporto è pari a 7 volte. E negli ultimi anni, nonostante la crisi, ha avuto una crescita accentuata.
Questo cosa comporta?
Veniamo al nocciolo della questione: siamo considerati un Paese “ricco” se calcoliamo la ricchezza come rapporto, molto elevato, capitale (finanziario e reale)/Pil. Un rapporto – e questo è un dato importante – che negli ultimi 15 anni è cresciuto in modo veloce, proprio mentre l’economia decelerava. La questione vera è che un rapporto così dipende da come viene letto e interpretato.
In che senso?
Secondo me, è la conseguenza della nostra crisi. Resto molto convinto che sia la prova provata dei fattori che hanno contribuito alla nostra crisi.
Quali sono questi fattori?
Gli elementi forti sono due: la decelerazione del Pil e il crollo demografico. La combinazione di questi due fattori ha originato l’esplosione di questo rapporto. Lo stock della ricchezza reale, che è composta essenzialmente da patrimonio industriale e stock abitativo – quest’ultima tra l’altro è la voce che è cresciuta di più in Italia prima della crisi -, è il numeratore, mentre il Pil è il denominatore, ma il denominatore in questi anni è inciampato pesantemente a causa di una serie di politiche sbagliate. Dunque, abbiamo un denominatore in affanno e un numeratore che non va male, ma, prima cosa, dobbiamo ricordarci che le attività finanziarie, finchè sono sulla carta, finchè non sono liquide, finchè i guadagni non vengono realizzati, rimangono, appunto, solo sulla carta. Se il giorno dopo l’asset cade, il guadagno è perso. E in più le attività finanziarie sono molto concentrate: basti pensare che il Qe ha beneficiato solo i redditi molto elevati, il famoso 1%, dove si trova la parte più consistente della ricchezza finanziaria.
E la ricchezza reale?
Anche questa è concentrata, ma un po’ meno. Basti pensare alla quota di italiani che hanno le case di proprietà. Ma anche in questo caso, un conto è abitare nel centro di Milano, un altro nell’hinterland. Se la casa viene messa a reddito, il ritorno è ottimo. Se ci si vive, viene imputato come reddito ciò che uno pagherebbe qualora non fosse di proprietà ma dovesse andare in affitto. È il cosiddetto affitto figurativo, che viene trattato come fosse un reddito da capitale e rientra nel calcolo del Pil.
Sta dicendo che sono ricchezze che creano una sorta di illusione ottica?
No, la ricchezza reale e finanziaria è più un simbolo, anche se molto concreto. Però, per fare un esempio, qualora si ricevesse un’impresa in eredità, un conto è decidere di vivere di rendita, un altro conto è continuare l’attività di impresa: in questo caso a trarne giovamento sarebbe anche la crescita economica. Non a caso, negli Stati Uniti il rapporto ricchezza/Pil è più basso, intorno a 5, ma questo non vuol dire che noi siamo “ricchi” e gli americani “poveri”. Piuttosto, meno il rapporto va all’insù, più un Paese è dinamico, cresce con maggiore impeto. Ed è quello che sta accadendo nei Paesi dell’Est o in Germania. Un solo dato: in Italia, nel periodo 2007-2017 il Pil pro capite in termini reali è calato dell’8,4%, in Germania è cresciuto del 10%. Il che vuol dire che i tedeschi hanno affrontato il decennio della crisi con una crescita media dell’1%.
Alla luce di quanto detto, che cosa dobbiamo aspettarci dall’Europa?
Dobbiamo essere consapevoli che, qualora chiedessimo di scomputare dal rapporto deficit/Pil le riforme fiscali e le misure a sostegno del reddito, ci verrà chiesto di introdurre una patrimoniale. Direi che è scontato che ci risponderanno così, ci diranno: voi siete ricchi.
Ma il ministro Tria ha smentito che questa ipotesi sia sul tavolo e finora abbiamo detto che questa ricchezza va interpretata nel modo corretto…
Infatti noi dobbiamo essere consapevoli di questo e pronti ad affrontare questa obiezione. Noi non siamo un Paese così “ricco” come quei dati fanno supporre, siamo un Paese di grandi potenzialità, che però non sappiamo sfruttare a pieno. Ma questi ratio vanno interpretati per non legittimare nuovi aumenti di austerity, perché con un livello così deteriorato tra povertà e Pil noi dobbiamo fare politiche di riforme e di crescita.
Flat tax e reddito di cittadinanza si faranno insieme, di pari passo. Che ne pensa?
Il reddito di cittadinanza è un sostegno alla disoccupazione, mentre la flat tax potrebbe funzionare se fatta con intelligenza. Certo non deve limitarsi a essere un bonus a vantaggio dei redditi più alti.
Torniamo all’Europa. Alle nostre poposte obietteranno solo con la patrimoniale?
No. Secondo me, anche se nessuno lo dirà apertamente a muso duro, aleggerà una seconda obiezione: ben altri sacrifici hanno fatto la Grecia, il Portogallo, la Spagna, dove ancora oggi la disoccupazione è al 17%. Paesi tutti “torchiati” dalla Troika in questi 10 anni. Insomma, a Bruxelles qualcuno alzerà il dito per obiettare: perché all’Italia viene riservato un trattamento più soft?
Siamo un grande Paese e poi oggi l’Europa sembra volerci concedere tempo, non è così?
Sì, è vero. Con la guerra dei dazi che può deflagrare da un momento all’altro anche per un nonnulla, in Europa guardano ai margini potenziali di crescita interni, finora non utilizzati appieno. Un’Italia che ritorna a respirare e a crescere è fondamentale. Ma per farlo non bisogna ammazzare la domanda interna, come è stato fatto; questa è cattiva politica. Con i consumi bassi, anche l’export non corre come dovrebbe, avanzo commerciale e posizione netta con l’estero si affievoliscono. Se esistesse una domanda interna cche potesse bilanciare questi rischi, la politica economica, e anche estera, dell’Italia sarebbe più solida e coraggiosa.
Professore, secondo lei, visto che a Bruxelles dovremo affrontare una trattativa non facile, meglio che a condurla sia un ministro combattivo come Savona o uno più diplomatico come Tria?
Savona è sicuramente un ministro competente, ma, alla luce delle sue dichiarazioni passate sulle ipotesi di uscita dell’Italia dall’euro, susciterebbe una certa perplessità nei suoi interlocutori. Trovo invece che Tria mostri un atteggiamento positivo quando dice: noi possiamo camminare da soli, ma se volete darci una mano saremo in grado di andare più veloci. È un atteggiamento negoziale che può aprire spazi e legittimazione. Questo è quel che deve fare la politica.
(Marco Biscella)