«Tu la Borsa la conosci, ma hai un limite: non ci operi, non ci metti i soldi in prima persona. Anzi, non gestisci i soldi altrui in prima persona. Per quello non riesci a cogliere certe stranezze. E, fidati, lunedì è successo davvero qualcosa di strano». È questo il messaggio che il mio contatto mi ha fatto trovare ieri mattina su WhatsApp come buongiorno, tanto per anticipare l’effetto sveglia del caffè che ancora era in preparazione. Ovviamente ho chiesto conto e, in effetti, qualcosa non tornava. Come sapete il mercato ha salutato la vittoria di Emmanuel Macron come conferma del fatto che l’ipotesi di Frexit avanzata da Marine Le Pen stia perdendo anche le potenzialità residuali che aveva, ma, a ben guardare, c’è dell’altro: l’arrivo pressoché appaiati di Macron e Le Pen al ballottaggio era dato da tutte le banche d’affari e dai centri studi come base case scenario, ovvero l’epilogo più probabile di tutti al voto di domenica. Perché, quindi, rialzi del 4% e oltre? Come mai un’euforia tale, al netto che resta ancora il secondo turno? C’era forse qualche scommessa sul cross dell’euro che andava a scadenza alla riapertura dei mercati lunedì mattina e un arrivo della Le Pen in prima posizione non avrebbe consentito un apprezzamento come quello che abbiamo visto, arrivando quasi a 1,10 sul dollaro? Qualche trade era strettamente legato al risultato francese, tanto da far festeggiare le Borse in quel modo così scomposto?
Ieri all’ora di pranzo, il Ftse Mib cresceva dello 0,20%, sempre sull’onda lunga di quanto accaduto in Francia: «Il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali in Francia conferma il nostro scenario di base, secondo cui ci sembra probabile che Macron diventerà il prossimo presidente. Se, in seguito al secondo turno, ciò dovesse verificarsi, ci sarebbero due implicazioni importanti per l’outlook dell’economia europea. In primo luogo, si ridurrebbe in maniera considerevole il rischio che la ripresa economica europea, sempre più forte e su larga scala, venga messa a repentaglio da uno shock politico. In secondo luogo, emergerebbe la possibilità di una collaborazione tra Francia e Germania più forte, e non più debole, rendendo la regione più preparata ad affrontare in futuro nuove sfide politiche, istituzionali ed economiche», ha previsto Valentijn van Nieuwenhuijzen, Chief Strategist e Head of Multi Asset di NN Investment Partners. E ancora: «A nostro avviso questi due benefici saranno di supporto per i mercati e controbilancerebbero le continue incertezze circa l’economia francese. Persino con Macron come presidente, infatti, non è certo che verranno messe in atto le riforme strutturali necessarie a spingere l’economia del Paese verso un percorso di crescita elevata a lungo termine», ha aggiunto.
Riguardo quest’ultimo aspetto, infatti, molto dipenderà dalle elezioni parlamentari che si terranno a giugno e che determineranno se il prossimo presidente della Francia sarà affiancato da un Parlamento collaborativo, in modo da poter andare avanti con queste necessarie riforme strutturali: «Tutto sommato, per il momento ci sembra che tali risultati siano positivi per i mercati nel breve periodo». Insomma, anche chi opera dice chiaro e tondo che la situazione è sì positiva, ma non tale da giustificare un exploit come quello di lunedì. Ieri, poi, la nostra Borsa avrebbe dovuto scontare il “no” dei dipendenti al referendum sul futuro di Alitalia, di fatto l’atto finale di un’avventura sciagurata costata ai contribuenti italiani – negli anni – qualcosa come 7,5 miliardi di euro, a meno che dopo l’arrivo del Commissario, il governo non decida di esaudire il desiderio nemmeno troppo nascosto dei sindacati di categoria: intervenire direttamente nell’azienda come fatto con Ilva e con le banche. E, guarda caso, in contemporanea con l’annuncio per domani della convocazione dell’assemblea dell’azienda, fonti Ue facevano sapere che non erano improbabili aiuti di Stato, tanto che la Commissione rendeva noto di attendersi di essere contattata dal governo italiano nel giro di poco tempo.
Insomma, i mercati sono guidati da alcune forze “visibili” e altre “nascoste”, un qualcosa con cui è meglio che scendiamo a patti fin da ora. E il motivo è molto semplice: questo grafico è il più importante che io abbia mai pubblicato, un qualcosa che vi invito a scaricare e tenere con voi, poiché è la risposta a tutte le domande che la storia economico-finanziaria recente ci ha posto e che sono rimaste senza risposta. Come vedete la fonte sono il Wall Street Journal e NBC, non qualche sito complottista: negli Stati Uniti, il Paese della libera intrapresa, del sogno americano, pochi giorni fa si è toccato il record assoluto di un qualcosa che pare incredibile, se pensiamo agli Usa reaganiani. Il 57% degli interpellati, infatti, ritiene che lo Stato debba fare di più per i cittadini, il dato più alto dal 1995, quando si è cominciato a tracciare la lettura. Insomma, nel Paese del liberismo, oltre la metà dei cittadini oggi vuole più Stato.
E se guardate il grafico, il trend è sempre crescente, a parte una fase tra il 2010 e il 2013, ovvero in pieno intervento pubblico dell’amministrazione Obama: ci furono i cicli di espansione monetaria della Fed (Operation Twist prima e Qe poi), ci fu il salvataggio del settore automobilistico, ci furono gli interventi federali diretti. Ma il grafico ci dice anche dell’altro. Primo, l’accelerazione maggiore si è avuta in contemporanea con il dilagare ideologico della globalizzazione e con il contemporaneo diffondersi di una finanziarizzazione d massa dell’economia: erano gli anni del boom, i quali però portarono a breve al bust della bolla tecnologica. Secondo, il record storico è stato registrato ora: cosa significa? Che la gente non ha fiducia in Trump a livello di sostegno pubblico nei confronti dei cittadini, vedendo la sua agenda politica come ultra-liberista e unicamente finalizzata, nonostante le parole, al sostegno di Wall Street? Oppure che la gente ha sempre più contezza del fatto che il sistema è insostenibile e una nuova crisi è ineluttabilmente dietro l’angolo, quindi anticipa una domanda di protezione?
Io temo la seconda. E lo stesso caso francese ci parla di questa lingua: viviamo in un mondo disseminato da mine anti-uomo finanziarie che non vediamo e non conosciamo, perché frutto di una finanziarizzazione totale e selvaggia che opera nell’ombra, di fatto – però – decidendo i destini di tutti noi, come accaduto con la crisi subprime. È ovvio che ai mercati tremino i polsi per l’ipotesi anche solo potenziale della Frexit, soprattutto per la questione legata al collaterale nella catena di rischio di controparte bancario di cui vi ho parlato ieri, ma la reazione di lunedì mattina era nulla più che l’euforia un po’ scomposta, figlia di una lucida disperazione, per l’ennesimo iceberg evitato all’ultimo momento. E guardate che di pezzi di ghiaccio in grado di far male al sistema ce ne sono moltissimi, ma, per loro natura, viaggiano sott’acqua fino all’ultimo momento o quasi: riguardate quel grafico, perché fa impressione. Il 57% degli americani vuole che lo Stato faccia di più per difenderli: parliamo della nazione dove la libera impresa è sempre stata la legge fondativa, mentre oggi si chiede non solo welfare, il cui livelli di utilizzo sono da anni un campanello d’allarme inascoltato (a partire dai sussidi alimentari), ma una sorta di scudo del governo contro il mercato, ormai percepito come fonte di pericolo e non più di benessere. Andate a vedere il numero di americani che ha investito i propri risparmi in titoli azionari: siamo ai minimi dagli anni Sessanta, questo è un altro indicatore di sfiducia devastante.
Insomma, c’è qualcosa, un filo invisibile, che lega i destini politici della Francia con quelli dell’intera Ue con gli Stati Uniti e fino ai mercati emergenti: la finanza, oramai, è l’unico motore che fa muovere non più gli investimenti, ma i governi e le loro azioni. Peccato che questo subordini le agende politiche ai desiderata e alle necessità di banche e fondi, tramutando la vita quotidiana in una seduta di contrattazioni aperta 24 ore su 24. Rifletteteci. E, davvero, conservate quel grafico: quella a cui stiamo assistendo, è una mutazione sociale epocale.