All’apparenza la reazione di Piazza Affari è quasi incomprensibile: dalle trimestrali bancarie emerge un quadro in profondo rosso, caratterizzato da svalutazioni, rettifiche di valore sugli avviamenti e sugli asset intangibili. Ma il mercato non trema. Anzi. Vediamo la mappa del credito alla luce dei conti di questi giorni.
Monte Paschi, più che mai Cenerentola del sistema, ha accusato un passivo che è corretto definire una voragine: la perdita, pari a 5,343 miliardi, ha assorbito interamente l’aumento di capitale da 5 miliardi di euro realizzato la scorsa estate. Ora la banca procederà a una nuova operazione per 3 miliardi entro giugno contro i 2,5 miliardi già annunciati. Ce la farà? Probabilmente sì, perché Siena può contare sulla pre-garanzia del consorzio che già aveva aderito alla precedente proposta di 2,5 miliardi. Il mercato ci crede (ma è soprattutto questione di prezzo) visto il calo contenuto del titolo. La sensazione è che la banca abbia i numeri per tentare gli investitori internazionali più avventurosi.
Ancor più sorprendente la reazione all’azione di pulizia effettuata dal Banco Popolare: la perdita di 1,95 miliardi triplicata rispetto al rosso di 606 milioni dell’anno prima non ha impedito agli analisti di applaudire la scelta di accelerare le rettifiche straordinarie sui crediti: Equita ha confermato il rating buy sul titolo che per Société Generale non è più da vendere. Prende il volo anche Ubi Banca nonostante 725,8 milioni di perdite dovute alla contabilizzazione di circa 883 milioni netti di “impairment essenzialmente su avviamento e intangibili”, sottolinea la banca in una nota. Entrambe le Popolari si preparano così alla stagione delle nozze che prenderà il via nel caso di approvazione della legge che prevede la trasformazione in Spa delle roccaforti del voto capitario. Una rivoluzione che non dispiace a Giuseppe Castagna, il manager che ha permesso a Bpm di staccare un dividendo ai soci dopo tre anni di digiuno.
Più tradizionali le reazioni ai conti di Unicredit, su cui pesa la svalutazione del rublo, con un impatto prima causa di un taglio di 1,1 miliardi di euro, cui la banca reagirà accelerando alcune operazioni di M&A, vedi la chiusura dell’accordo con il Santander per la creazione di un asset manager comune tra Pioneer Investments e Santander Asset Management. O la cessione, avvenuta ieri dopo una lunga trattativa, a Fortress dell’intera partecipazione in Uccmb, incluso un portafoglio di sofferenze per circa 2,4 miliardi di euro. Nessuna sorpresa, infine, per Intesa, salvo un dividendo più alto del previsto, sostenuto da buoni utili.
In sintesi, l’impressione è che il sistema sia alla vigilia di una seconda fase della rivoluzione che ha preso il via con l’avvio dell’Unione bancaria europea. Non ci vuole molto a mettere in collegamento l’improvvisa voglia di far piazza pulita di sofferenze e partite incagliate con il pressing della Vigilanza guidata da Danielle Nouy. Ma ancor di più ai suggerimenti in arrivo da Mario Draghi: i vantaggi del piano di Quantitative easing, che partirà tra poche settimane, rischiano di esser limitati se non azzerati se le banche, o più in generale il sistema finanziario, non saranno in grado di far arrivare la liquidità all’economia reale.
Ma perché ciò avvenga bisogna liberare le banche dalla zavorra delle sofferenze (188 miliardi contro 84 di possibile realizzo) che comportano costi e bruciano capitali a danno degli impieghi. Soprattutto nelle banche medie e piccole (popolari e non) che operano dal Veneto al Centro-Sud, le più fragili assieme a Monte Paschi. È questa la ragione che spinge verso quella che, impropriamente, viene definita bad bank. Sarà probabilmente un spv (special purpose vehicle) in cui far confluire una buona parte dei crediti “tarocchi” che affliggono il sistema. Gli esempi in materia non mancano, come conferma un recente studio di due esperti del Fondo monetario internazionale, Nadège Jassaud e Kenneth Kang, che offre una vasta carrellata delle soluzioni utilizzate nell’ultimo quarto di secolo.
Di sicuro, il ministro Pier Carlo Padoan non sceglierà la ricetta svedese (anni Novanta) o tantomeno quella giapponese (2002): le regole Ue non consentono infatti operazioni in odore di aiuti di Stato quale quella adottata da Tokyo, ove i crediti dubbi finirono senza tanti complimenti in pancia allo Stato che, si sa, non ha troppe remore a stampare nuovi Japan Bond. Né si potrà seguire la ricetta spagnola: Madrid ha dovuto sottoporre la sua bad bank alle autorità di Bruxelles, accettando una supervisione seppur temporanea che ha il sapore della perdita di sovranità. Non resta che la strada di un veicolo a cui il Tesoro parteciperà, per via diretta o attraverso la Cdp, con una quota di minoranza e/o con un sistema di garanzie a vantaggio degli investitori per rendere gli assets più appetibili.
In ogni caso, i nuovi titoli dovranno fornire “remunerazioni adeguate” al sostegno pubblico, al momento della cessione ad altri investitori, probabilmente internazionali, a caccia di buone occasioni per far fruttare i capitali sotto i cieli della deflazione e dei tassi zero. Com’è accaduto in Spagna, ove la bad bank ha consentito alle banche di smobilitare ingenti patrimoni, per lo più immobiliari, frutto di incagli e sofferenze.
I big della finanza hanno potuto disporre di un’offerta di dimensioni adeguate e “pulita” da possibili pendenze legali. Di qui l’arrivo nella penisola iberica di Warren Buffett, Bill Gates o Kohlberg and Kravis, gruppi che finora in Italia hanno operato meno di quanto voluto. Senza dimenticare che, una volta ripulito (almeno un po’) di incagli vari, perfino Montepaschi rischia di diventare una preda appetibile.