La diagnosi di D’Alema – «Il Pd è un amalgama malriuscito» – si rivela sempre più azzeccata. Lo spettacolo delle divisioni sulle candidature regionali dà un quadro davvero allarmante della condizione in cui versa il principale partito di opposizione. C’è, innanzitutto, uno scontro interno che si è riaperto dopo le primarie. Quasi dappertutto candidati veltroniani si contrappongono a candidati dalemiani.
Il caso più eclatante è l’Umbria dove l’uscente Rita Lorenzetti viene insidiata dall’ex tesoriere di Veltroni Mauro Agostini. Il secondo fronte è costituito dalla fragilità del nuovo sistema di alleanze. Il caso Puglia è sintomatico. Al di là del protagonismo di Nichi Vendola, in quella regione è in discussione la linea di Bersani e D’Alema di aprire una linea privilegiata di dialogo con l’Udc di Casini.
Ci sono realtà in cui il Pd ha, invece, semplicemente rinunciato a farsi vedere come partito. È il caso del Lazio dove l’autocandidatura di Emma Bonino ha paradossalmente fatto uscire il partito di Bersani dall’angolo anche se al prezzo della fuoriuscita di alcuni dirigenti cattolici.
L’accordo interno è saltato anche sullo strumento indicato dallo statuto come il principale mezzo per selezionare i candidati. Se la minoranza veltronian-franceschiniana con l’apporto dei prodiani e della Bindi vuole le primarie a tutti i costi, il segretario si rende conto che non può proporre agli alleati un patto di coalizione senza indicare preventivamente un nome su cui convergere.
Tutto sembra congiurare perché maturi una nuova sconfitta del Pd. Forse è quello che spera la minoranza che, in questo modo, immagina di liquidare la pratica Bersani. Quello che la minoranza non capisce è che dopo Bersani e dopo una dura batosta elettorale c’è forse la conclusione dell’esperienza del Pd. Tutto è ora nelle mani del nuovo segretario. Molti speravano di vederlo più protagonista. Lui ha scelto il profilo basso. Forse è il suo primo errore.