Il giurista (teorico, applicatore del diritto, autore di testi normativi) distingue. Distinguere è il suo mestiere: previsione da previsione; caso concreto da caso concreto. Anche (soprattutto) in un tempo in cui si parla e si agisce “all’ingrosso”.
E all’ingrosso quasi tutta la stampa ha commentato la vicenda della modifica del Regolamento della Camera riferita al controllo sui bilanci dei gruppi parlamentari come un episodio di resistenza dei partiti ad accettare regole di trasparenza troppo incisive, opponendosi all’intervento di società di certificazione esterne al Parlamento.
Sennonché, come è evidente, non di partiti si tratta, ma di gruppi parlamentari: solo in questo diverso contesto ha senso porre il problema di tutelare l’autonomia dell’organo costituzionale Parlamento nei confronti di organi o soggetti a esso esterni (altra questione è se non sia stato ingenuo, sul piano dell’immagine, prospettare, proprio adesso, l’affidamento del controllo a un organo quale il collegio dei Questori: e infatti la Giunta per il regolamento della Camera è tornata precipitosamente sui passi precedenti, reintroducendo il controllo “esterno”).
Quanto ai partiti, le norme già ci sono: l’art. 9 della legge 6 luglio 2012, n. 96 stabilisce che, “al fine di garantire la trasparenza e la correttezza nella propria gestione contabile e finanziaria”, partiti, movimenti politici e liste di candidati “si avvalgono” di società di revisione iscritte nell’albo speciale tenuto dalla Consob o registrate; a esse è affidato, a termine, il controllo della gestione contabile e finanziaria.
No: partiti e gruppi parlamentari non sono la stessa cosa. Bene, ma è così importante la distinzione? Gruppi parlamentari e partiti non sono, in fondo, fatti della stessa sostanza? Due entità l’una proiezione dell’altra, affondate nella stessa crisi? Insistere per individuare il discrimine non sarà un’ubbia, una sottigliezza inutile, o persino una malattia sociale? (In effetti alle critiche mosse adducendo argomenti giuridici, da un po’ di tempo in qua, si oppone sempre l’accusa di “azzeccagarbuglismo conservativo”: una forma di dileggio assai fortunata; tanto più fortunata quando con essa si accompagna la preparazione dei peggiori disastri normativi).
Ebbene, la distinzione è invece assai importante. Per due principali motivi. Anzitutto perché quando non si distingue (e non si ricorda), si legifera male e senza tener conto dell’esperienza.
Se si tornasse con la mente al dibattito che ha condotto ad approvare la legge n. 96 del 2012 (o se ci si prendesse il fastidio di leggere gli atti parlamentari del tempo, e i commenti giornalistici, peraltro quasi freschi di stampa), si potrebbe scoprire che proprio l’attribuzione del controllo a società di revisione, nel caso dei partiti, è stata oggetto di riserve e fonte di tensioni. Si adduceva, in quel caso, la non perfetta affidabilità di tali soggetti in ragione del particolare contesto; e si sarebbe preferito assegnare un compito così delicato alla Corte dei conti. Della Corte dei conti, invero, per le funzioni ausiliarie, l’art. 100, c. 2, Cost. fa un organo di “rilievo costituzionale”, già avvezzo al controllo preventivo di legittimità sugli atti e al controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato, nel rapporto con un organo costituzionale quale il Governo.
Dunque, da una parte, le società di revisione non sono il balsamo salvifico; dall’altra, quel dibattito ha qualcosa da insegnare circa il criterio di individuazione del titolare del controllo, per superare l’antico problema: “chi controllerà i controllori?”. E quello di cui è più recente consapevolezza: “come impedire che il controllato ‘catturi’ il controllore?”. La proposta di modifica del Regolamento della Camera oggi prospetta la scelta della società di revisione attraverso una “procedura di evidenza pubblica”: v’è da augurarsi che la soluzione si riveli adeguata nella fase della messa in opera.
Ancora: si può fare già il punto sulle soluzioni normative apprestate dalla legge n. 96 del 2012, valutandone l’efficacia alla luce delle trasformazioni intervenute nel mondo dei “controllati”?
Sta venendo, infatti, alla luce che il legislatore, nel disciplinare i controlli, ha pensato a un universo dei partiti – soggetti a struttura “tradizionale”, cui imporre una moderazione delle tendenze oligarchiche – che in realtà era in rapida trasformazione e differenziazione, e che ormai per larga parte non esiste già più.
Si consideri: quali controlli sul reperimento e sull’uso delle risorse si possono imporre al “partito personale regionale” (forte concentrazione della leadership intorno al suo capo sostanziale che è anche al vertice dell’ente Regione), quando l’intero sistema economico che gravita intorno a esso e ne sostanzia l’organizzazione è di tipo “informale”? Quali controlli sono possibili su partiti non più oligarchici, ma autocratici, la cui leadership si incentra sulla disponibilità monopolistica di un brand commerciale, e le cui forme di finanziamento sono del tutto inconoscibili?
E si tratta di stabilire quali rapporti intercorrano tra questi partiti, di tipo nuovo, e i corrispondenti gruppi parlamentari (o singole componenti interne a essi): rapporti così stretti da fare del finanziamento dei gruppi parlamentari null’altro che una strategia dei partiti per ottenere quanto maggiori risorse pubbliche a tutti i livelli in cui sono chiamati ad operare. Sotto questo profilo, si imporrebbe uno stretto raccordo – quanto a soggetti e modalità – tra disciplina regolamentare del controllo sui gruppi parlamentari e disciplina legislativa dei bilanci dei partiti.
V’è poi una seconda grande questione, più di fondo. Una legislazione poco consapevole e prodotta sotto la pressione delle retoriche antipartitiche conduce inevitabilmente a esiti di bassa qualità e di inefficace applicazione. Per converso, occorrerebbe da parte del Parlamento una dimostrazione inequivocabile di capacità e di unitario “spirito repubblicano”.
Quanto ciò sia difficile è dimostrato anche dalla vicenda della revisione del regolamento della Camera in materia di controllo sui bilanci dei gruppi: sintomo inquietante, mentre il Parlamento è chiamato all’impegno, ben più gravoso, di approvare una nuova legge elettorale.