In vista del vertice europeo di giovedì e venerdì prossimi, i leader europei sembrano alla ricerca di un esorcista. Peccato che la figura professionale più azzeccata per porre fine alla pantomima della crisi del debito sovrano sia quella del becchino.
Per il veto tedesco e francese, infatti, non ci saranno gli Eurobond, non ci sarà il raddoppio del fondo salva-Stati e non ci sarà l’acquisto di massa di obbligazioni italiane e spagnole per puntellare i periferici, non ci sarà nulla. Il sistema è costituzionalmente paralizzato e Madrid e Lisbona sono condannate ad attendere il loro destino di crunch sul finanziamento del debito a gennaio.
D’altronde, vista da Berlino la situazione appare rovesciata: perché le formiche tedesche dovrebbero cedere sovranità fiscale e pagare, attraverso trasferimenti per il salvataggio dell’Europa del sud, sei volte il prezzo della riunificazione del 1989? «Se tamponeremo il debito dei paesi periferici, metteremo a rischio il futuro dei nostri figli: i livelli di debito, infatti, sono astronomici», taglia corto Hans-Werner Sinn, capo dell’istituto tedesco Ifo, secondo cui «c’è da dubitare sul reale grado di conoscenza delle implicazioni delle proprie decisioni da parte dei leader europei. Stanno ripetendo gli stessi errori compiuti dalla Germania dopo la riunificazione».
Infatti, i trasferimenti verso la ex Germania Est ammontano ancora a 60 miliardi di euro l’anno da un decennio a questa parte. Insomma, la Germania deve scegliere tra la sua sopravvivenza e quella dei partner: pensate abbia dubbi? Il dramma è che i mercati guardano sempre un anno luce più avanti della politica e, infatti, si scommette sul fatto che i costi dei salvataggi creeranno contaminazione: detto fatto, i cds sul debito sovrano francese – avete letto bene, francese – sono saliti sopra la soglia dei 100 punti base.
Un report di Fitch sul Meccanismo europeo di Stabilità avverte che un nuovo fondo di salvataggio «potrebbe comportare un abbassamento dei rating sovrani, visto che l’Ue si ritroverebbe subito ad affrontare la maturazione del debito senior, lasciando i detentori obbligazionari privati esposti al rischio di ulteriori e più alti tagli dei rendimenti». D’altronde, è evidente a tutti che le ricette a parole della Bce altro non sono che degli inutili effetti placebo: basti vedere i rendimenti obbligazionari, con i bond spagnoli decennali al 5,45%, ben oltre la soglia psicologica del 5%, ma anche le incertezze dei mercati nel detenerli pur a fronte di cedole fruttuose. Il debito del Club Med più Irlanda va infatti piazzato ad assicurazioni giapponesi, fondi mediorientali, banche francesi o tedesche. Tutti soggetti che dovranno mettere denaro reale a fronte di rischi di default e haircuts: voi lo fareste?
Non lo farà – lo ha già dichiarato ufficialmente – Credit Agricole, che la prossima settimana diserterà l’asta di titoli di Stato spagnoli proprio per l’atteggiamento ondivago della Bce: «Il rischio è davvero troppo alto per il nostro appetito», recita un comunicato dell’istituto francese. Evviva! Prepariamoci, quindi, a un’impennata dei rendimenti obbligazionari per il 2011 quando il Portogallo dovrà racimolare sul mercato 38 miliardi di euro, il Belgio 85, la Spagna 210 e l’Italia ben 347, stando ai calcoli pubblicati la scorsa settimana da Goldman Sachs.
Inoltre, bisogna ricordarsi che l’80% dei mutui spagnoli sono denominati sui tassi Euribor, già in rialzo a fronte di stipendi che calano. In parole povere, ci sono due vie d’uscita se l’Europa intende proseguire su questa strada: o tutto il debito sovrano dei periferici diventerà debito pubblico tedesco oppure l’euro collasserà. E quante sono le probabilità di un tale evento? Stando a un report pubblicato ieri dal Centre for Economics and Business Research di Londra, «mantenere in vita l’euro richiederà tagli agli standard di vita europei più grandi di quelli affrontati dalla Gran Bretagna nella Seconda guerra mondiale. Nella storia recente non esistono livelli di calo degli standard pari a quelli che occorreranno per mantenere l’euro nella sua forma attuale. Per questo, a nostro avviso c’è una possibilità su cinque che l’euro resti in vita così com’è», conclude Douglas McWilliams, direttore del centro.
Il suo giudizio è stato influenzato anche dall’avvertimento giunto pochi giorni fa da Ernst&Young, le cui previsioni per l’eurozona parlano di prospettive di “severa recessione” nel 2011 pari a una su dieci: la previsione di crescita del Pil è infatti pari al +1,4%, contro l’1,7% del 2010 e l’1,9% per i tre anni successivi al prossimo. Quindi il combinato con i risorgenti timori sul debito possono dar vita a cosiddetti “gravi rischi di downside”, la sgradevole ipotesi del “tail risk”, ovvero un evento improbabile ma possibile.
Per Ernst&Young c’è un 10% di possibilità che l’economia dell’eurozona si contragga più del 2% nel 2011 e di un ulteriore 3% nel 2012: «È motivo di preoccupazione il fatto che la Bce abbia detto no a una politica di quantitative easing: questo significa che Francoforte si troverà ad affrontare una rinnovata crisi del debito senza munizioni efficaci». Insomma, un bel guaio. Ma a rendere ancora più fosche le prospettive e a rendere giustificabile la decisione di Credit Agricole di non acquistare bond spagnoli alla prossima asta, giunge un report di Ubs, in base al quale il detonatore della crisi all’inizio dell’anno prossimo potrebbe essere il sistema bancario spagnolo, anzi la sua struttura di sistema.
Se infatti la ratio debito sovrano/Pil spagnola non appare particolarmente preoccupante e la linea di trend si discosta da quella irlandese o portoghese, esiste un vulnus che Ubs descrive così: «La ricapitalizzazione delle banche è l’evento chiave e pensiamo che gli investitori restino preoccupati rispetto alla qualità degli assets del sistema bancario spagnolo e al fatto che la base della struttura di finanziamento sia nei fatti totalmente affidata al mercato. Pensiamo che il settore bancario iberico dovrà conoscere perdite consistenti sui prestiti e sul settore immobiliare e dovrà ribilanciare la struttura della maturazione attraverso finanziamenti a breve termine con fonti più stabili, come depositi a tempo e bonds a lungo termine».
Due i problemi del settore. Primo, il modo con cui le banche spagnole finanziano le loro operazioni potrebbe essere una ricetta per il disastro. Basarsi su finanziamenti a breve termine, infatti, non è solo potenzialmente costoso, ma anche rischioso: quando la percezione del rischio di credito sale, finanziarsi può avere costi esorbitanti. E se la situazione peggiorerà, le aziende che si basano eccessivamente sul finanziamento a breve termine potrebbe virtualmente divenire incapaci di ottenere credito a qualsiasi costo sia offerto.
Secondo, le banche spagnole non sembrano aver accantonato abbastanza denaro per colmare le perdite sui prestiti, anche a causa della legislazione bancaria spagnola che permette agli istituti di spalmare gli approvvigionamenti su periodi relativamente lunghi di tempo (sei anni per i mutui immobiliare residenziali). Inoltre, non esistono dati precisi riguardo il collaterale sui mutui legati al settore immobiliare spagnolo. Quindi Ubs ha utilizzato la ratio valida per altri paesi che hanno conosciuto questo tipo di problemi – Usa e Irlanda – concludendo che il 50% di tutti i mutui “problematici” costerebbe alle banche spagnole un approvvigionamento supplementare pari a 60 miliardi di euro, mentre prendendo il 60% il conto salirebbe a 89 miliardi di euro.
Insomma, giovedì e venerdì a Bruxelles si parlerà di aria fritta mentre i mercati già danno per certa la crisi spagnola e si focalizzano sui cds francesi. E dopo la giornata di oggi alla Camera e al Senato, potrebbe toccare all’Italia.