Forse è un caso. Oppure c’è del metodo nella scelta del Tesoro americano di citare proprio adesso esplicitamente la Germania nel rapporto semestrale al Congresso sulla “manipolazione dei mercati”, un documento che in questi anni ha avuto la sola funzione di puntare l’indice contro la Cina, rea di indebolire a bella posta lo yuan per favorire l’export. Invece, alla vigilia del compleanno del trattato di Maastricht, Washington, a sorpresa, ha attaccato frontalmente le politica economica che Berlino, nei fatti, impone all’eurozona mettendo a rischio la stabilità dell’area e, di riflesso, gli equilibri che la finanza internazionale cerca faticosamente di recuperare dopo la lunga crisi. Perché questo attacco? E perché in questo momento?
Per tentare una risposta possiamo partire da un ripasso del trattato di Maastricht. Tre sono i parametri fissati all’inizio degli anni Novanta a Maastricht (in vigore dal 1° novembre 1993) per garantire armonia e stabilità nella nascente unione monetaria, rafforzarti nel 2007 a Lisbona e sanciti nel 2012 (con il patto di bilancio europeo, meglio noto come Fiscal compact). I vincoli più importanti sono: 1) il rapporto debito/Pil che non deve esondare oltre la soglia del 60%; 2) il rapporto deficit/Pil che dall’attuale tetto del 3% deve mirare al pareggio (come previsto dalla modifica dell’articolo 81 della Costituzione); 3) l’obiettivo, su cui deve vigilare la Banca centrale europea, di tenere a bada l’inflazione entro e non oltre il 2%.
Quest’ultimo obiettivo, ahimè, è ampiamente sotto controllo. Anzi. Dai numeri di ieri risulta che in Italia l’aumento dei prezzi a ottobre è stato pari allo 0,7%, come non capitava dal momento più buio della recessione del 2009. Ma non è una bella notizia. Anche perché, a inizio ottobre, si sa, è aumentata l’Iva tra le tante proteste di chi scommetteva su un’impennata dell’inflazione a conferma che sono in molti a non aver ancora capito che il vero pericolo è quello opposto, la caduta verticale dei prezzi. Listini sempre più bassi convincono le famiglie a rinviare gli acquisti (“perché cambiare macchina adesso se tra un anno me la venderanno a meno?”) e a risparmiare, per paura, sempre di più. Salvo poi andare a caccia degli investimenti meno rischiosi e redditizi: la logica del materasso, insomma.
Così si crea “la trappola della liquidità”: nessuna impresa prende a prestito denaro perché non trova occasioni redditizie per investire. I giapponesi conoscono bene questa situazione. Dal 1990 il Paese vive con un tasso di inflazione vicino a zero o anche sotto ma, nonostante una spesa pubblica enorme, l’economia non riparte. Per questo Tokyo ha cambiato rotta: stampare moneta e metterla in tasca alla gente perché ritorni a spendere, è la parola d’ordine. E il cambio? Vada giù, così si esporterà e si lavorerà di più. L’Europa, invece, continua a seguire la ricetta opposta.
In questo contesto non stupisce la forza dell’euro che poggia sull’ottima salute dalla bilancia commerciale dell’Unione europea. Nel 2008, prima della crisi di Lehman Brothers, l’area euro registrava un deficit commerciale con il resto del mondo di 100 miliardi. Oggi è in attivo di 300 miliardi. Com’è stato possibile, vista la forza della moneta unica? Il segreto si spiega con l’austerità imposta al sud Europa perché colmasse, a suon di sacrifici, il buco lasciato dalla fuga repentina dei depositi dal Nord Europa dopo la crisi finanziaria americana che aveva provocato non pochi guasti nelle banche tedesche.
Poteva essere un processo virtuoso, se Berlino avesse agito da locomotiva dell’economia europea, aumentando i consumi privati, investendo nelle infrastrutture (in questi anni quasi abbandonate per inseguire il pareggio di bilancio) o aperto le frontiere dei servizi. Nulla di tutto questo è avvenuto. E così l’attivo commerciale di Spagna e Italia, oltre che di Portogallo e Irlanda è avvenuto con la compressione dei consumi e l’aumento dell’emigrazione della forza lavoro più preparata. Insomma, l’Europa ha imitato il modello di crescita a tutto export tipico dell’economia tedesca. Ma questo ha provocato e provoca pesanti squilibri nelle altre economie, specie quelle emergenti.
Di qui la protesta americana, nel giorno delle venti candeline di Maastricht, di fronte a un euro forte che è frutto di un’anomalia perversa più che delle forze di mercato. Un euro troppo forte per l’Italia, ma anche molto, troppo debole in rapporto alla forza dell’economia tedesca che si avvantaggia anche così delle debolezze dell’Europa della periferia, come ormai viene definita. Avrà qualche effetto? Probabilmente no. Anzi, di sicuro la Cancelliera si chiuderà a riccio, assieme alla nuova maggioranza che, per ora, stenta a trovare l’accordo anche sull’istituto di un salario minimo garantito di 7,5 euro all’ora. Ma prima o poi, a Berlino sorgerà il dubbio che debito e peccato sono due cose diverse, anche se in tedesco si dicono nello stesso modo.