Secondo una delle più note leggende metropolitane della cosiddetta seconda repubblica, quella degli anni successivi al 1992, Giulio Andreotti era stato “pungiuto”, quindi un “ufficiale di Cosa Nostra”, un mafioso che ogni tanto si abbracciava e si baciava con Salvatore Riina, detto “Totò u curtu”, capo dei capi e via dicendo. Nonostante l’assoluzione in vari processi, si potrebbe raccogliere una grande massa di articoli e articolesse di vari “pistard” del giornalismo italiano che sono diventati famosi per questa “scoperta” su Andreotti. E attendiamo, ovviamente, un libro di storia, che ci fornisca un grande pensiero unico su tutta la questione, così come è avvenuto per altre vicende italiane.
Forse Andreotti aveva tanti difetti, ma uno in particolare indisponeva e indispone il noto qualunquismo del giornalismo italiano: conosceva bene la politica, l’aveva imparata a 29 anni da un signore che si chiamava Alcide De Gasperi.
Certo, si può dire che noi eravamo nelle discutibili mani del divo Giulio, mentre oggi siamo nella mani dei super-onesti Di Maio e Di Batista, ma soprattutto di un nuovo genio, Angelino Alfano, il nuovo playmaker della politica italiana. Ma non è un sollievo.
Alfano esce dalla nota “scuola di Arcore” del cavalier Silvio Berlusconi, che nel nostro immaginario italiano equivale all’Ena francese o alle associazioni inglesi che nascono a Eton, Harrow e poi a Cambridge e Oxford. Ma, al proposito, esistono molti dubbi. Alfano, collezionista di incarichi governativi dove non ha lasciato alcun segno importante, divide oggi incredibilmente tutta la politica italiana: a sinistra, al contro e nel centrodestra. A leggere i giornali in questi giorni e ad ascoltare le analisi televisive, sembra che chi si “prende Alfano ha già bello che vinto oppure ha perso”.
Non si conoscono bene le idee politiche di Angelino, ma il suo fantomatico gruppo sembra il “prefisso telefonico” che spariglia quel tripartito che caratterizza la “nuova repubblica”, che però doveva essere bipolare.
Il fatto è che queste nuove forze politiche italiane sono letteralmente terrorizzate da quello che può avvenire prima alle regionali in Sicilia e poi alle politiche del 2018. Tre blocchi, tre “30 per cento” all’incirca, con una perdurante assenza di legge elettorale, con la preoccupazione di un assenteismo forte. Tutto alla fine porta inevitabilmente alla necessità di costruire coalizioni. A meno che non si bypassi tutto, con una soluzione, nuovamente tecnica e un’ammucchiata parlamentare (magari un po’ più competente dell’accoppiata Monti-Fornero) per l’emergenza di fare ripartire un Paese che, dopo dieci anni, è sotto del 6,2 per cento rispetto al Pil pre-crisi, quello del 2007.
Soluzione quest’ultima più credibile di una svolta pentastellata, oppure di una riconferma di Gentiloni o di una scalata improvvisa di Minniti o di una ricomparsa dello stesso Renzi, che appare sempre più impopolare.
La sostanza di questa incredibile importanza di Angelino è il riflesso più evidente della mediocrità politica che si è raggiunta in Italia. Alfano, di fatto, è diventato un alibi comodo a sinistra e nel Pd per dare fastidio alla leadership di Matteo Renzi e a destra per aggiudicarsi la leadership, dopo la lunghissima stagione berlusconiana. E’ un gioco al massacro, miope, che rivela l’incapacità totale di una classe dirigente allo sbando e la precarietà della situazione italiana.
Se si leggono le posizioni dei vari, presunti leader, di questa “nuova repubblica”, si può comprendere che la figura di Angelino Alfano rappresenta, involontariamente, l’immobilismo e lo sfarinamento della politica italiana. Sia chi contesta Alfano, sia chi lo prende in considerazione non fa che rendere più acuta la crisi democratica italiana.
Tutto questo rappresenta, alla fine, un grande segno di irresponsabilità di fronte alla perdurante difficoltà economica del paese.
Tanto per citare di nuovo il presunto “pungiuto”, cioè Giulio Andreaotti, si può ricordare la prudenza “nel promettere” che raccomandava sempre, per non scontrasi poi con le aspettative dell’elettorato e dell’opinione pubblica.
In questo caso è inevitabile un paragone con chi oggi governa il paese e commenta i nuovi dati Istat, che forniscono alcuni segnali indubbiamente positivi, ma che vanno letti nel contesto generale italiano, europeo e mondiale. E non possono essere esaltati come una sorta di fuoruscita dalla grande crisi.
E’ vero che i segni più, in molti casi in Italia, hanno sostituito il segno meno, ma se si guarda al complesso di dieci anni di quella “crisetta” (come scrivevano alcuni noti economisti italiani) si può notare, come fa sia il Financial Times che un rapporto di Mediobanca su più di duemila imprese italiane, che i danni sono stati enormi e non sono stati ancora rimarginati.
Lasciamo perdere per questa volta la disoccupazione perdurante, la povertà che non si riesce a contenere, l’incertezza diffusa, le paurose differenze sociali. Quello che questa volta preoccupa è che ci sono tre paesi nella area mondiale industrializzata: la Grecia, l’Italia e il Portogallo che, rispetto a dieci anni fa, non hanno ancora recuperato.
Se la Grecia è “morta” con un 25 per cento in meno, se il Portogallo contiene la sua perdita a circa il 2 e mezzo per cento, è l’Italia, con il 6,2 per cento in meno, che lascia di stucco rispetto alla risalita, non semplice e sempre precaria, di tutti gli altri paesi, sia quelli dell’Eurozona sia degli Stati Uniti.
Se si unisce lo sfarinamento politico a un entusiasmo di maniera, si rischia un testacoda da brividi. Non si dimentichi poi che l’intero capitalismo mondiale viaggia su un crinale di incertezza finanziaria, che lo porta al bivio tra riforma radicale o il rischio di una disparità sociale che può provocare ripercussioni imprevedibili.
Con quello che continua a capitare nel Mediterraneo, con i “venti di guerra” coreani, anche questo Ferragosto sarà vissuto all’insegna dell’incertezza.